Certo, va anche capito il contesto: una Dda che lavora per quattro lunghi anni a un’ipotesi suggestiva, cioè una “triplice malavitosa” di ’ndranghetisti, mafiosi siciliani e camorristi federata per infestare la Lombardia; una conseguente richiesta di misure cautelari che evoca gli arresti di massa in uso in Calabria, almeno finché Nicola Gratteri è stato procuratore di Catanzaro; un gip, un singolo sfrontato e per giunta coraggioso giudice per le indagini preliminari, Tommaso Perna, che osa smontare il castello, affermare che la cupola è frutto dell’immaginazione, che la Procura ha preso un’enorme granchio e che a fronte di 153 soggetti da colpire con misure cautelari, le richieste stanno in piedi per appena 11 persone. Ecco, il contrasto sicuramente è epico, di dimensioni abnormi. Eppure nella ferocia con cui la Procura di Milano e i giornali che ne riportano gli umori hanno impallinato Perna, il gip impertinente, non c’è solo la delusione per la fatica sprecata. C’è qualcos’altro: lo stupore per una prassi calpestata, lo sconcerto per un officiante che non aderisce alla solita liturgia. In una parola, chi è estraneo alla magistratura coglie l’evidente disappunto per una condotta non allineata alle “tradizioni” della carriera unica.

E qui, la stizzita replica della Dda milanese, l’indignato scalpore dei giornali meno garantisti costituiscono un involontario ma formidabile spot per la separazione delle carriere. Un ignaro estraneo alla lite fra toghe capisce solo una cosa: che la magistratura inquirente e buona parte dei media davano per scontato il via libera del gip alle richieste della Dda, e che proprio questo dimostra quanto sia necessario il “divorzio costituzionale” tra giudici e pm. Colpisce che a difendere il dottor Perna sia solo il suo referente gerarchico più alto in grado, cioè il neoeletto presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia. Colpisce che la locale sezione dell’Anm non abbia sprecato una sola parola in difesa del giudice impallinato (o che, come ironizza in altra parte di questo giornale Tiziana Maiolo, non abbia sollecitato una “pratica a tutela” di Perna). Colpisce più di tutto il silenzio “nazionale” della magistratura associata e del suo autogoverno (un comunicato di una rappresentanza di togati, per esempio, ci stava così male?).

Colpisce, tutto questo, perché rimanda all’idea che il “no” alle carriere separate non sia frutto di una visione complessa, di una consapevolezza culturale profonda, ma che rappresenti solo il dogma di un sistema corporativo e autoreferenziale. Così autoreferenziale che, in un caso pure clamoroso (in cui l’insofferenza della Dda per il gip evoca l’abitudine alla strada spianata), quasi nessuno sente il bisogno di urlare “giù le mani dal collega Perna”…