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Insulti e teorie del complotto sulla vittoria della “Kalush Orchestra” Ma i premi culturali sono ( quasi) sempre una questione politica
Il gruppo ucraino Kalush Orchestra ha vinto l’Eurovision Song Contest 2022. I principali bookmakers avevano assegnato una quota molto bassa al gruppo ucraino in quanto era tra i favoriti già prima dell’inizio della competizione. I pronostici si sono rivelati giusti e la Kalush Orchestra con 631 punti ha trionfato. Il fatto è che l’Ucraina ha vinto grazie al televoto e quindi alle preferenze degli spettatori, perché con i voti delle quaranta nazioni in gara ( ciascuna delle quali può assegnare da 1 a 10 punti ai vari concorrenti), la Kalush Orchestra aveva raggiunto solo il quarto posto con 192 punti, uscendo anche dal podio. Eppure, tanto è bastato, per rilanciare sui social le teorie del complotto.
E sono volate parole grosse. Senza mezze misure: «Cialtroni e infami. Vergogna senza fine. Europa suddita di Zelensky» – questo, più o meno, il tenore dei commenti. C’è chi si è spinto ancora più in là in un azzardato paragone tra le Olimpiadi naziste di Hitler nel ’ 36 e l’Eurovision 2022. Si è riversato, insomma, sulla Kalush Orchestra tutto un “pacifico” livore contro Zelensky e l’Ucraina, manco fosse il battaglione Azov che aveva suonato la sua marcia militare. Qualcosa di enormemente sproporzionato: sono solo canzonette. O no?
Non avendo alcuna competenza musicologa per giudicare il brano della Kalush Orchestra – l’Irlanda è comunque il paese che vanta più vittorie, sette, e come stupirsene, ma l’Ucraina ne ha collezionate tre come l’Italia, anche se vi partecipa solo dal 2003 – non saprei dire se la vittoria della band ucraina sia tutta dovuta alle emozioni suscitate dalla canzone. Ma è innegabile che all’esibizione sul palco si sia mescolato, e forse è stato anche determinante, un sentimento di simpatia politica verso una nazione aggredita e trascinata in una guerra.
L’assegnazione dei premi è sempre il risultato di questa “miscela”. Succede anche nelle migliori “famiglie”, pure all’incontrario. Una decina d’anni fa vennero desecretati i verbali dell’Accademia svedese che assegnò il Nobel per la letteratura nel 1959; a quell’edizione era stato candidato Ezra Pound, ma il premio gli venne negato perché si era reso responsabile, secondo il presidente della Commissione, Anders Osterling, di avere diffuso «idee decisamente in contrasto con lo spirito del Nobel». E lo stesso accadde per Borges, anzi a Borges accadde più volte, tanto che il grande scrittore argentino ironizzava: «È un’antica tradizione scandinava: mi nominano per il premio, poi lo danno a un altro. Ormai tutto ciò è una specie di rito». Nei verbali, si può leggere questo giudizio: «È troppo esclusivo o artificiale nella sua ingegnosa arte in miniatura», e uno non sa se ridere o piangere. La verità è che non gli venne mai perdonata la “visita” che fece nel 1976 al dittatore Pinochet. Come è innegabile che il premio a Aleksandr Solzenicyn nel 1970 fosse soprattutto un premio “politico” per la dolorosa denuncia nella sua opera del gulag come “sistema”. Solzenicyn rinunciò a andare a Stoccolma a ritirare il premio ( «il regime mi impedirebbe di tornare a casa», disse), ma poi si presentò, quattro anni dopo ormai esule, a incassare l’assegno.
Anche Pasternak rinunciò a ritirare il premio: «Una nuova provocazione nella crociata anticomunista lanciata dalle forze reazionarie dell’Occidente» – così la «Gazzetta letteraria» di Mosca aveva definito la scelta di assegnargli il Nobel 1958. Pasternak declinò. Quando un cronista lo raggiunse nella sua dacia, disse: «La mia gioia è solitaria». Ma forse la storia più emblematica è quella di Andrej Sacharov, il fisico che aveva contribuito alla costruzione della bomba russa all’idrogeno prima e divenne paladino dei diritti civili in Russia dopo, tanto da opporsi alla guerra in Afghanistan e finire arrestato nel 1980 e poi in esilio. Nel 1975, gli era stato assegnato il premio Nobel per la pace, ma non poté ritirarlo, e fu la moglie Elena Bonner a recarsi a Stoccolma.
A quelli che non poterono ricevere il premio Nobel per motivi politici fanno da contralto quelli che invece al premio opposero il “gran rifiuto”. Sartre ne è l’emblema assoluto: nel 1964, gli venne conferito il premio per la Letteratura, e quello era l’anno in cui lui aveva pubblicato alcuni dei suoi libri più importanti ( La nausea, Il muro, L’età della ragione) e stava diventando un’icona per una generazione che si affacciava alla rivolta. Sartre aveva addirittura scritto una lettera in anticipo all’Accademia – perché non gli assegnassero il premio. Accadde ugualmente e lui spiegò il suo rifiuto convinto che uno scrittore non debba trasformarsi in un’istituzione. Aggiunse anche che lui si sentiva un “ponte” tra l’ovest e l’est, e per la coesistenza pacifica delle rispettive culture, senza l’intervento delle istituzioni. Lo scrittore André Maurois sostenne che il vero motivo del rifiuto di Sartre fosse perché «incapace di indossare uno smoking».
A Sartre aveva fatto da apripista il grande drammaturgo irlandese George Bernard Shaw che, rifiutando il premio nel 1925, disse: «Posso perdonare Alfred Nobel per aver inventato la dinamite, ma solo un demone con sembianze umane può aver inventato il Premio Nobel». Amen.
Più cospicua la motivazione che oppose Le Duc Tho – che aveva intrapreso trattative segrete con Kissinger e gli americani mentre infuriava la guerra in Vietnam che portarono agli accordi di pace poi conclusi a Parigi nel 1973: proprio nel 1973 gli era stato assegnato il Nobel per la pace, in “coabitazione” con Kissinger; Le Duc Tho, che aveva combattuto i francesi prima e gli americani dopo, disse che lui non era fatto per queste “svenevolezze” e che in realtà gli accordi non venivano rispettati e c’erano ancora focolai di guerra nel suo paese. Kissinger, invece, il premio lo prese.
Insomma, è innegabile che la politica abbia un intreccio con l’assegnazione dei premi e anche con il loro rifiuto – si può ricordare che a Hollywood nel 1971 George C. Scott non si presentò a ritirare il premio Oscar come miglior attore per la sua interpretazione del generale Patton, definendo la serata come «una inutile esposizione di carne umana fine a se stessa» o anche Marlon Brando per Il Padrino, quando sul palco al suo posto si presentò una giovane apache per i diritti calpestati dei nativi.
Ma il livello di aggressività verbosa che si è manifestato per la premiazione della Kalush Orchestra lascia sconcertati. Non ho contezza di eguale “scontro” sui social di altri paesi. Ma dobbiamo rassegnarci: è un privilegio tutto italiano, questo. E non è una buona notizia.