Il 16 marzo 1978, qualche minuto prima delle 9.00 del mattino, l'onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, esce dal portone numero 79 di via del Forte Trionfale a Roma. Sono ad attenderlo la 130 blu di rappresentanza, su cui sale Moro, e un'Alfetta bianca con la scorta. Il presidente deve prima recarsi al Centro Studi della Dc e poi, alle 10.00, alla Camera dei Deputati; qui l'onorevole Andreotti presenterà il nuovo governo, entrato in carica l'11 marzo, un monocolore democristiano, che sarà il primo sorretto anche dai voti comunisti, di cui l'onorevole Moro è stato accorto e paziente artefice.Sono le 9.00 e qualche minuto. Nella strada residenziale di via Fani, alla Camilluccia, il traffico è scarso; la giornata è serena, ma la temperatura ancora pungente. Quattro uomini, che indossano impermeabili e berretti dell'Alitalia e portano delle borse, sono fermi nei pressi del bar Olivetti, che ha cessato da tempo ogni attività, all'incrocio tra via Fani e via Stresa. Qui, ogni mattina staziona il furgone del signor Antonio Spiriticchio, che vende i suoi fiori, ma nella notte ne sono state squarciate le ruote, e così non c'è. Una Fiat 128 giunge veloce e rapidamente si ferma allo stop dell'incrocio. I quattro uomini fermi al bar superano il marciapiede imbracciando ciascuno un mitra, si avvicinano alle auto e aprono il fuoco. La 130 blu è imprigionata tra la 128 davanti e l'Alfetta dietro, a sua volta bloccata da un'altra auto sopraggiunta e messasi di traverso. Disperatamente l'autista della 130 blu cerca di manovrare per guadagnare un varco, ma un ulteriore impedimento è una Mini Minor lì parcheggiata casualmente. Il crepitare delle armi è infernale. I cinque uomini della scorta vengono uccisi; uno di essi, ancora in vita, morirà poco dopo all'ospedale. Il presidente della Dc è prelevato dal sedile posteriore della 130 blu e trasbordato su un'altra auto. Vengono prese anche le borse che aveva con sé. I componenti del commando salgono sulle proprie auto e si danno alla fuga. L'azione è durata solo pochi minuti.La notizia si diffonde immediatamente: i residenti della zona telefonano alla polizia, che rapidamente invia pattuglie sul posto. Presto in via Fani sorvolata da elicotteri si ritroverà una piccola folla di autorità, poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, fotografi e curiosi. Sull'asfalto, un cappello da pilota e un caricatore di mitra. I fogli dei quotidiani che Moro leggeva in auto - e quel giorno lo accostavano di nuovo al caso Lockheed - vanno a coprire il corpo senza vita di un agente della scorta. I giornali radio e quelli televisivi interrompono i programmi e danno le informazioni in una ridda di voci non verificate sulle armi e le auto usate, sul numero e la nazionalità dei componenti del commando, sui testimoni del fatto. Qualcuno evoca il sequestro Schleyer operato dalla Raf tedesca nel settembre dell'anno precedente. I quotidiani preparano le edizioni straordinarie.Sorpresa, incredulità e sgomento sono le parole più ricorrenti, ma sono anche le emozioni che attraversano il paese da un capo all'altro. Intanto, sul luogo è presto arrivata Eleonora Moro, moglie del presidente democristiano. Rientra dopo poco a casa, dove riceve la visita del cardinale Poletti, vicario di Roma. Il Papa, che conosce personalmente Aldo Moro e la moglie, è stato prontamente avvisato degli accadimenti. Telefonate delle Brigate rosse che rivendicano l'agguato e preannunciano ulteriori messaggi giungono alle redazioni Ansa di diverse città. Alla Camera la seduta prevista è spostata dal presidente Pietro Ingrao dopo un accordo con i capigruppo parlamentari. Il Parlamento è agitato: dichiarazioni di questo o quel personaggio segnano la necessità di prendere atto di uno «stato di guerra», contribuendo ad alimentare un senso generale di incertezza e di confusione. A Palazzo Chigi convergeranno presto, per una riunione, segretari dei partiti, esponenti politici e, per i tre sindacati, Lama, Macario e Benvenuto. Il segretario del Partito comunista, Berlinguer, accompagnato da Natta e Pajetta, arriva con una decisione adottata d'impeto: «impedire qualsiasi trattativa». Il paese si ferma. Mentre partono dalle centrali operative delle forze di polizia le prime impacciate disposizioni su piani di ricerca e blocchi di controllo, migliaia di lavoratori escono dai posti di lavoro. Unendosi ad altri cittadini, sciamano per le piazze principali di tutte le città d'Italia, anticipando la proclamazione dello sciopero generale intanto indetto dai sindacati. Fabbriche, uffici e scuole si chiudono. Molte saracinesche di negozi si abbassano in segno di paura o di lutto. C'è rabbia e senso di impotenza. Ma si registrano, insieme a una diffusa pietà per gli agenti della scorta, anche parole di indifferenza: il potere democristiano non è stato mai molto amato. Le manifestazioni saranno mute, con qualche sventolio di bandiere rosse e bianche, ma segnate soprattutto dall'angoscia, da un bisogno popolare di presenza, dal disorientamento. Le voci accorate di sindacalisti e oratori ufficiali chiamano dai palchi alla «difesa del Paese contro il ricatto del terrorismo», alla mobilitazione, alla «vigilanza e a isolare chi sta a guardare o, peggio, solidarizza con questi criminali».Alle 11.00 circa si riunisce il Consiglio dei ministri: Andreotti comunica che il dibattito alla Camera sulla fiducia al governo sarà necessariamente breve, decisione con cui si sono già dichiarati d'accordo i partiti. Dopo una rapida valutazione dei fatti, si decide di adottare le prime misure di coordinamento delle attività di polizia. Il ministro degli Interni, Cossiga, convoca per le 11.30 al Viminale i titolari dei dicasteri della Difesa, delle Finanze, di Grazia e Giustizia, i vertici delle Forze Armate e dei Servizi di Sicurezza per dare vita a un Comitato tecnico-operativo che si riconvocherà nel tardo pomeriggio, incaricato di tracciare le linee di ricerca e la gestione dei dati informativi delle investigazioni. Cossiga deciderà anche la costituzione di un gruppo di consulenti, in diretto rapporto soltanto con lui, che possa supportare le indagini con analisi e valutazioni. In serata, il Viminale distribuirà alla stampa le foto dei terroristi latitanti e ricercati. L'elenco, diffuso anche attraverso la televisione, contiene numerose inesattezze ma anche precise indicazioni. Viene inoltre trasmesso un numero di telefono a cui chiunque può fornire informazioni coperte da segretezza.Poco dopo mezzogiorno, Andreotti legge alla Camera una dichiarazione programmatica che ripeterà più tardi di fronte al Senato: il governo, con il suo programma, ottiene rapidamente la fiducia. In serata, il presidente del Consiglio apparirà alla televisione parlando di fermezza e difesa dello Stato. Nel pomeriggio, il procuratore capo della Repubblica di Roma, De Matteo, che in mattinata ha partecipato al vertice al Viminale, convoca i sostituti procuratori e assume la direzione delle indagini, assicurando un lavoro collaborativo. I primi sopralluoghi sono stati compiuti dal sostituto di turno, Infelisi. Interrogato dai giornalisti, De Matteo dichiara che c'è la possibilità di applicare uno «stato di pericolo pubblico». La direzione democristiana riunita in permanenza, tramite il suo segretario Zaccagnini, definisce l'agguato di via Fani «un attacco alla nuova maggioranza». È la stessa conclusione - trasmessa alla stampa - a cui sono giunti i comunisti. Da tutto il mondo cominciano ad arrivare messaggi di solidarietà e dichiarazioni di sostegno. Da americani, tedeschi e inglesi arrivano anche offerte di collaborazione tecnico-logistica.Aldo Moro è a via Montalcini, prigioniero delle Br. Il Tribunale del Popolo gli comunica l'inizio del processo nei suoi confronti.