A Bettino Craxi non è capitata la disavventura del suo antagonista Enrico Berlinguer, arruolato d'ufficio ai primordi della campagna referendaria nel fronte del Sì alla riforma costituzionale fra le proteste della figlia Bianca. Che forse ha perduto anche per questo, la direzione del Tg3, già pericolante di suo e logorata da una durata non comune nella storia della Rai. Bianca, d'altronde, è lì, professionalmente in sella come merita. Ma allo scomparso leader socialista è forse accaduto anche di peggio. Non so, se dove si trova, e presumo possa guardare molto dall'alto ciò che miseramente accade quaggiù, può aver gradito quella "certa arroganza" rimproveratagli dall'amico Silvio Berlusconi, in una intervista alla nostra Paola Sacchi, per paragonarlo all'attuale presidente del Consiglio.Dal quale comunque, e per fortuna, l'ex Cavaliere ha avuto almeno il buon gusto di distinguerlo per l'ampiezza di visione politica che mancherebbe al toscano. Meno male, visto anche come Renzi parla di Craxi, lamentandone quanto meno l'"opportunismo", contrapposto alla "generosita'", o qualcosa di simile, di Berlinguer.Non so neppure quanto abbia potuto Craxi apprezzare da lassù il merito appena rivendicato quaggiù da Massimo D'Alema di averlo difeso dai "cani" che l'azzannarono dopo la caduta, come forse lo stesso D'Alema teme o spera di dover fare col rottamatore Renzi dopo la prevedibile, e comunque da lui prevista, sconfitta rovinosa nel referendum di domenica prossima.L'ultima immagine di D'Alema conservata da Craxi, riferitagli da me dopo un incontro col nostro comune amico Gerardo Bianco, è quella di un uomo gelidamente silenzioso, e consenziente, in una riunione che precedette alla Camera le votazioni a scrutinio segreto sul grappolo delle autorizzazioni a procedere contro l'ormai ex segretario giornalista avanzate dalla Procura di Milano e altre.Si era a fine aprile del 1993. Il governo di Carlo Azeglio Ciampi, comprensivo di ministri e sottosegretari del Pds-ex Pci, era fresco di nomina e attendeva la fiducia dei deputati. Achille Occhetto, accompagnato appunto da D'Alema, chiese un incontro col segretario della Dc Mino Martinazzoli, che Bianco ospitò nel proprio ufficio di Montecitorio.Il segretario dell'ex Pci chiese come "prova della svolta" politica costituita dal governo Ciampi, subentrato al primo governo di Giuliano Amato, che i deputati democristiani, per i quali avrebbe parlato in aula proprio Bianco, votassero a favore dei processi a Craxi. Martinazzoli cadde dalle nuvole e, anche come avvocato, spiegò come e perché i parlamentari democristiani non fossero soliti ricevere ordini in quelle circostanze, dovendo votare solo "secondo coscienza". Cosa che in effetti fu poi ripetuto in assemblea da Bianco con un discorso interrotto dalla sinistra, dalla destra e dai leghisti perché troppo riguardoso verso l'ex presidente del Consiglio. Di cui furono permessi solo alcuni dei processi, non tutti.Scoppiò allora il finimondo, in aula e fuori. Occhetto, sempre nel silenzio del suo capogruppo, ordinò per ritorsione il ritiro della "delegazione" post-comunista dal governo. E la folla inferocita, raccolta per un comizio in Piazza Navona, si riversò davanti alla vicina residenza alberghiera di Craxi per rovesciargli addosso ingiurie, sputi, monetine, accendini, ombrelli: uno spettacolo semplicemente ignobile, sul piano umano ma anche politico.L'allora capogruppo dell'ex Pci alla Camera non si vide e neppure si sentì allora per soccorrere Craxi dall'assalto dei "cani". Egli cercò invece di soccorrerlo dopo sei anni da presidente del Consiglio, come si è appena vantato in quel di Campobasso, per avviare o sostenere una "trattativa umanitaria", apertamente auspicata dall'Unità diretta da Peppino Caldarola, dopo che Piero Sansonetti aveva già proposto la grazia, perché a Craxi, ormai prossimo alla morte, fosse concesso di tornare libero in Italia dal suo rifugio tunisino: libero, cioè senza che fosse piantonato come un detenuto in ospedale.Fedeli alla "durezza senza uguali" che sarebbe stata lamentata dopo dieci anni da Giorgio Napolitano, nel frattempo diventato presidente della Repubblica, i magistrati di Milano resistettero. "Resistere, resistere, resistere" era del resto diventato un po' il motto di Francesco Saverio Borrelli, il mitico capo della Procura di Milano negli anni di Mani pulite e poi Procuratore generale della Corte d'Appello, quando, chiuso il caso Craxi, cominciò all'ombra della Madonnina la lunga avventura giudiziaria e politica di Berlusconi.Non ho motivo per non credere a ciò che D'Alema ha raccontato a Campobasso: che Craxi avesse conosciuto e apprezzato il suo soccorso parlandone con l'amico Arafat, a sua volta affrettatosi alla prima occasione a riferirne, come a ringraziarlo, all'allora presidente del Consiglio. Temo, purtroppo, a dramma consumatosi, dopo la morte e la sepoltura di Bettino in quel piccolo cimitero di Hammamet affacciato sul mare che separa la Tunisia dall'Italia.Ma non ho motivo neppure per nascondere o dimenticare una scena raccontatami dal carissimo e compianto Nicola Mansi, amico oltre che fedelissimo autista di Craxi.Molti furono i messaggi arrivati a Bettino prima e dopo il difficile, direi disperato intervento chirurgico eseguito su di lui dai suoi medici di Milano nell'ospedale militare di Tunisi, il più attrezzato del paese, dove però i chirurghi avevano dovuto portare i ferri dall'Italia e la lampada per illuminare quell'angolo della sala operatoria fu sollevata è tenuta ferma con le mani da un infermiere.Fra i messaggi augurali ce ne fu uno portato personalmente, credo, dall'ambasciatore italiano a Tunisi. Ma era un dispaccio desolante per la sua forma burocratica. Non era neppure firmato Massimo D'Alema, potendo, anzi dovendo bastare la qualifica del presidente del Consiglio.Craxi sarà pure rimasto contento e commosso del pur inutile tentativo di D'Alema di farlo tornare vivo e libero in Italia, senza peraltro che il presidente del Consiglio avesse pubblicamente polemizzato con i magistrati insensibili anche a questo passaggio estremo, ma di quel messaggio fece un mezzo gomitolo di carta e lo buttò a terra. Lì, arrotolata, fini in qualche modo anche la già malmessa sinistra italiana. Com'era finita nel 1968, fra gli inutili e disperati appelli di Aldo Moro all'umanità e alla sua personale salvezza nella guerra dichiarata e condotta da un manipolo di brigatisti rossi, la Democrazia Cristiana. Che alla fine di Moro sopravvisse come un vegetale per 15 anni, per buona parte proprio grazie a Craxi.Sarò forse esagerato, mi faranno velo la stima e l'amicizia avute con entrambi, al netto di tutti gli errori che l'uno e l'altro, così diversi fra loro, potettero commettere come uomini e come politici, ma questa è la convinzione che ho maturato vedendo ciò che è seguito alla loro scomparsa, compreso questo pasticciatissimo referendum alle porte. Del quale ormai prima ci libereremo e meglio sarà per i troppi significati di cui è stato caricato, nel bene e nel male. Un referendum che credo lascerà la bocca amara a tutti, vincitori o sconfitti che saranno, o si proclameranno.