Nove racconti e una lettera per Roma snocciolano l’animo segreto di una città che potrebbe addirittura rivelarsi come tutte le altre, forse. Nadia Terranova, lo scorso anno finalista al Premio Strega con Addio Fantasmi ( Einaudi), ambienta le narrazioni di Come una storia d’amore ( Giulio Perrone Editore) nella capitale e dà la propria versione dei fatti. Roma città della luce che tiene in ostaggio, Roma imprendibile, come la felicità, oggetto di un sentimento complesso, Roma città, anche, della prima periferia, delle mezze stagioni, dei non estremi. Con questo libro il talento di Nadia Terranova dà vita a dieci voci di donne lontane dai baricentri delle visioni scontate e ci ricor\ da come tutto sia questione di sguardo. La raggiungiamo al telefono. La scrittrice ci parla con la sua intonazione piena; per prima cosa le domandiamo perché abbia scelto la chiave dell’amore per raccontare Roma.

«Credo che tutte le storie siano storie d’amore, come ha scritto McLiam Wilson, l’autore di “Eureka street”. Mi piace liberare l’amore dalla depotenzializzazione che ha subito. A volte è stato utilizzato per denigrare l’oggetto raccontato, come se fosse un “meno”. “Amore”, invece, è una parola con tanti anfratti e nulla di quello che facciamo può esserne privo. La passione è una sua dimensione, e persino l’odio è una forma dell’amore.

Penso che il rapporto con una città sia sempre conflittuale e l’amore ha moltissimo a che fare con il conflitto, per me».

Sembra che anche in questo libro lei viva una dialettica intensa con il tema della felicità È una parola che mi terrorizza, una parola che ha un’interezza a cui sento di non poter aderire, ontologicamente. Non a caso la frantumo nel racconto, una forma più frammentaria rispetto al romanzo. Nella mia vita sono scappata di fronte alla domanda sulla possibilità della felicità, che invece mi si ripropone nelle microfelicità. Forse è un ritorno su quanto avevo scritto in “Addio fantasmi”: “Non esiste la felicità, esistono momenti felici”. È vero che le dieci protagoniste di questi racconti vivono molti momenti infelici, ma ne vivono anche di felici.

Tra i toni da lei scelti per descrivere Roma, c’è quello della “mezza stagione”. Una volontà di uscire dal Barocco berniniano, da tutto quel che Roma può essere di teatrale, di grandioso?

C’è una specie di funzione dello sguardo che si attiva dopo qualche anno che vivi a Roma. Avviene una sorta di selezione, per cui, da un lato, all’inizio vedi soltanto le cose che sai ti colpiranno nella loro maestosa bellezza — il monumentale, il museo a cielo aperto —, poi c’è una narcotizzazione, una parte di te si assuefà. Paragono la maestosa artisticità di Roma al mare.

Cosa intende?

Quando sto a Messina, a un certo punto il mare diventa una sorta di bussola della città: da un lato c’è un palazzo, dall’altro l’orizzonte dei colli, dall’altro ancora il mare. Così, a volte, a Roma può capitare di dire: “Ci vediamo dietro a Piazza Navona”, come fosse un posto qualsiasi, come dicessimo “Ci vediamo all’isolato 142”. In quel momento in cui affermi “Ci vediamo a Piazza Navona”, “Sono entrata a San Clemente”, in quell’abitudine è tutto il resto della vita romana, ed è quello che la può far diventare — questa è la sfida più alta — una città come tutte le altre.

Perché questa sfida?

Roma è ipernarrata, non c’è quartiere o strada di Roma che non si porti dietro una tradizione letteraria, cinematografica, teatrale, poetica. Non c’è posto dove non ti possa sentire inseguito: sicuramente l’ha raccontato Pasolini o l’ha sfiorato Trilussa, è stato messo in scena dalla Dolce vitao da Ladri di biciclette, tutto è diventato immaginario, fino alla Grande bellezza. L’unica possibilità per me consisteva nel raccontare i piccoli sentieri dietro alle grandi narrazioni. Cosa c’è, se Roma diventa veramente una città come tutte le altre?

Cosa?

C’è questo brulicare di umanità che la prima periferia è la più adatta a contenere, perché il centro racconta la grandiosità, la periferia più lontana racconta un tipo di sprofondo umano che va verso l’estremo, ma la marginalizzazione della prima periferia, di quel proletariato e della piccola borghesia non è stata raccontata.

Lei conclude La lavanderia sbagliata con la frase “guarderò il mio quartiere che non ho mai visto”. Scrivere è guardare diversamente?

La mia scrittura parte moltissimo dai luoghi; ed è curioso, perché non sono una scrittrice di descrizioni. È come se io riuscissi a guardare un posto soltanto attraverso il genius loci, che certe volte, come tutte le apparizione fantasmatiche, è una visione interiore e quindi diventa anche un dialogo con sé. Tra una persona e un luogo c’è sempre una relazione. Per me l’esempio principe di questo tipo di narrativa è l’ “Addio ai monti” di Manzoni, un capolavoro perché sintetizza come dentro una descrizione possa esserci un’azione narrativa.

Può spiegarci?

Lui sta descrivendo, ma sta anche raccontando un accadimento, vediamo azione e sentimento della nostalgia mentre si vanno formando. È una pagina indimenticabile per la bellezza poetica e perché riesce a non essere una descrizione ornativa. Questo è il mio rapporto con i luoghi, che siano Roma, lo Stretto o la tappa di un viaggio.

Nei racconti, le tematiche, anche quelle legate ai margini, sono problematizzate.

Penso ci siano margini che vanno di moda. Ci sono delle ondate: gli anni dell’antirazzismo black, gli anni della questione dei migranti, gli anni del femminismo. Invece non è così. Le persone stanno tutte insieme anche quando, in quel momento, la loro questione marginale non è di moda. Il problema della marginalizzazione è continuo, anche rispetto ai femminismi.

Lei è femminista?

Io mi sento e mi dichiaro femminista con tutte le contraddizioni del termine, ma quasi mai sono interessata alla platealità e all’iconizzazione, sono molto più interessata alla misoginia sotterranea, quella del cosiddetto soffitto di cristallo. È chiaro che le grandi battaglie e i grandi momenti servono alle svolte, ma siccome a me piace la letteratura più vicina all’umano, se io penso al femminismo, mi interrogo moltissimo su quanto fosse femminista mia nonna, che ovviamente non si definiva tale, ma che non è liquidabile come una semplice matriarca, perché di fatto non lo era, né come un’ancella del patriarcato. Quindi che tipo di donna era? Dov’era la sua forza, dove la sua fragilità? In cosa consistevano i condizionamenti sociali? Questo a me interessa moltissimo, perché mi sembra vicino alla verità delle persone.

E tornando alle periferie?

La marginalità delle periferie segue per me un ragionamento simile. Trovo un pochino facile e tendente al folcloristico parlare dell’isolamento della periferia assoluta. Non che non si possa fare, anzi si deve, però, se io racconto e mi propongo di raccontare un quartiere dell’estrema periferia, benché possa problematizzare molto anche in quel caso, comincio già con l’indicare un luogo dimenticato da Dio. Che cosa succede di chi invece sta a venti minuti dalla stazione Termini, ma tutti i giorni si muove soltanto tra una casa dove va a fare le pulizie, una lavanderia da aprire, un figlio da portare a scuola? Non è marginalizzazione quella, anche se si sta a venti minuti da Termini e a trenta da Piazza di Spagna? Non è un problema di distanza né di estremi. Quella marginalizzazione lì non va di moda, un poco come la piccola e media borghesia, che difficilmente diventa oggetto di rivolta. Anche nel “contro”, si è “contro” i ricchi. E di tutta la fascia nel mezzo? Di tutti noi che cosa ne è? Di quelli che hanno degli strumenti ma non ne hanno altri. Credo che andare armati di letteratura dentro questi problemi sia un buon modo per portare alla luce questa umanità.

Il tema dei migranti continua a essere un’urgenza reale però… Non è vero che le storie dei migranti non siano state raccontate. Grandissimi scrittori e giornalisti, Alessandro Leogrande, Annalisa Camilli, Francesca Mannocchi, stanno facendo un lavoro meraviglioso. Ovviamente non è che sia mai abbastanza, devono continuare, però non possiamo più dire che certe storie non siano raccontate. Ce ne sono anche altre, quelle della seconda e della terza generazione, che lo sono molto meno. Parlo di grandi visioni, non solo di libri usciti.

Nel racconto “L’ora di libertà”, troviamo un nonno- non- nonno italiano e un nipote- non- nipote, figlio di immigrati, che vivono una parentela non legata alla consanguineità. “Famiglia” è un termine ampio?

Nel finale di un libro per ragazzi che ho scritto nel 2015, “Le nuvole per terra”, c’è una ragazzina di 13 anni che a un certo punto, per varie vicende, si ritrova in mano un biglietto della sua pop star preferita e decide di non portarci né il padre né la madre, che sono separati, né il ragazzo, con cui ha una storia da poco, ma chiede a un nonno di due ragazzine — una delle quali è diventata una sua amica nel corso della storia, mentre l’altra è morta — di accompagnarla. A me piace molto raccontare questi legami non biologici. Non amo i vari termini “iperfamiglia”, “famiglia allargata”, perché penso che possiamo essere ancora più coraggiosi. Siamo cresciuti sapendo che ci servono dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei nonni. Credo che, a volte, sceglierseli consapevolmente, anche per un giorno, sia bello e giocoso. Ho riutilizzato questo espediente del nonno e del nipote, anche rispetto al bambino bengalese che, evidentemente, non ha i nonni nel Paese dove è arrivato.

La microsocietà bengalese a Roma è piuttosto presente nei suoi racconti. Che spunti ne ha tratto?

Parlo moltissimo di bengalesi in questo libro, perché al Pigneto e a Roma Est in generale la comunità bengalese è molto presente e forse è quella che ho potuto osservare di più. È una comunità molto particolare, per certi aspetti molto integrata, per altri tiene anche un serratissimo rapporto con il Paese di origine. E poi un bambino è un bambino: puoi dirgli che è bengalese, che è romano, lui vuole il nonno, vuole giocare, essere portato prima di Natale a fare qualcosa. Oltretutto quel ferroviere in pensione che gli fa da nonno potrebbe essere benissimo il ferroviere Raffaele che nel primo racconto, “Via della Devozione”, ha la moglie malata. Lo ritroviamo vedovo che si occupa delle persone del quartiere, così come nel primo racconto si era occupato della trans.

Nel testo “La felicità sconosciuta” si pone una domanda: “Il dolore l’assedia fino a sabotarla, fino a impedirle di vedere lo stesso dolore negli altri esseri umani. Esiste davvero poi il dolore degli altri o registriamo la sua esistenza solo quando, per semplice casualità, sfiora e amplifica il nostro?”.

Noi non possiamo pretendere che il nostro sguardo sul mondo sia neutro, non contaminato da quello che, nel frattempo, ci erode dentro. Si legge tanta retorica del farsi da parte, del non mettersi in mezzo. In realtà, se anche pensiamo all’origine del termine “engagé” — quello che si attribuisce alla letteratura impegnata, che tendenzialmente guarda l’altro —, significa “implicato”, cioè “coinvolto”. Per guardare e raccontare gli altri abbiamo bisogno che ci si attivino dentro delle corde profonde e nostre. Non possiamo essere in perfetto equilibrio.

Perché?

Intanto perché saremmo degli esseri mostruosi. A me niente fa più paura delle persone completamente risolte che si dichiarano tali, né della possibilità di esserlo. Invece mi piace molto l’idea di essere arrivati a patteggiare con i propri fantasmi, con i propri disequilibri, al punto da conoscerli, saperli affrontare, ma saperli anche utilizzare come risorsa. Quindi direi che nello sguardo con il mondo noi ci dobbiamo stare tutti, per intero, e dobbiamo usare il nostro squilibrio per capire quello degli altri. Anche perché il mondo non sarà mai in equilibrio.

Nel racconto “Il primo giorno di scuola” scrive: “non c’era quest’ossessione del linguaggio corretto, di una zona si poteva dire ‘ fogna di delinquenti’, e volerle bene lo stesso”. Esiste una serie di retoriche che si sono avvolte su se stesse?

Ultimamente c’è stata questa follia contro “Via col vento”, tra l’altro uno dei miei film preferiti, che sarebbe un film razzista, da non vedere. Stiamo veramente sfiorando il grottesco con questa storia che non si possano dire le cose. Siamo al punto che se definisco una persona “post- proletaria” la starei insultando.

Siamo al parossismo del politicamente corretto?

Mi sembra che siamo arrivati alla follia dell’insulto, del prendersela, e di questa finzione su tutto, anche sui corpi. Da femminista non voglio un mondo in cui dobbiamo dire che tutti i corpo sono uguali e sono belli. Io voglio un mondo in cui c’è una difformità, in cui il fatto che una persona sia brutta o bella non infici i suoi diritti, la sua possibilità di fare carriera, in cui il suo diritto a emergere, non venga deriso. Però non voglio un mondo in cui si finge che il problema non ci sia. Tornando a “fogna di delinquenti”, per zia ho un’insegnante di frontiera che, per scelta, ha deciso di lavorare in una scuola media di periferia a Messina e quando le hanno proposto il trasferimento ha rifiutato. Eppure mia zia non è tenera neanche per un minuto, usa delle parole dure, un poco ci scherza su, come i medici che stanno in prima linea. Se stiamo ancora all’idealizzazione del linguaggio non cambieremo nulla, mai. Rivendico la possibilità di essere ironici, autoironici, e molto chiari nelle parole, ovviamente senza urtare la sensibilità di nessuno, ma se nemmeno tra di noi possiamo parlare esplicitamente davvero è finita.

Dov’è il problema?

In questo momento sembra che non esistano più le classi sociali, come se fossero un’offesa; invece la questione è interessante, perché le classi sono magmatiche, oggi. Anche nel descriverle ci sono confini molto sottili tra proletariato, sottoproletariato, piccola borghesia, sottili e sempre più sfuggenti, visto che gli status sono cambiati e oggi i poveri possono avere un telefonino molto più costoso del mio.

Però in questo periodo le differenze sono emerse… Eccome. Alcuni articoli hanno fatto discorsi molto centrati sul punto. Penso a un pezzo di Francesco Palmieri, sul Foglio, a proposito del Lumpenproletariat. Ero interessatissima all’analisi e allo sguardo su quelle persone.

Io ho due cugini, una fa la fattorina, mentre studia all’università, e ha continuato a lavorare durante parte del lockdown. Mi interessavano più i suoi racconti di quelli di mio cugino anestesista, mi sembrava che lei avesse un maggiore contatto con la realtà. Lavorare era una sua scelta, per pagarsi l’affitto; forse, se avesse smesso, mia zia l’avrebbe mantenuta, ma lei ha detto di no, ha voluto continuare a fare quello che stava facendo.