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Vermiglio, scritto e diretto da Maura Delpero, nasce dalla promessa fatta a suo padre, appena mancato, di non scordare i territori in cui visse. Il film non centra la nomination all’Oscar 2025 come miglior film straniero, ma dovunque ottiene premi e critiche positive, con un apprezzabile consenso di pubblico. Il trionfo vero è però recentissimo, con sette David di Donatello che significano molto in termini di gratitudine e memoria per le genti e i luoghi del Trentino.
Le polemiche seguite alla débâcle di titoli importanti come Parthenope di Paolo Sorrentino, non possono distrarre dalla novità di un’Accademia che per la prima volta premia realmente il femminile nel cinema. Coraggiosamente e con talento l’autrice rende la sua creatura testimonianza in immagini di un tempo che va scomparendo, fatto di neve alta e latte appena munto, scuole di montagna e sussurri segreti tra sorelle. In Val di Sole, poco prima che la Seconda Guerra Mondiale finisca, sono rimasti solo anziani e bambini, in un paesino di montagna, quasi interamente popolato da donne: i giovani sono tutti al fronte. Qualcuno è tornato ferito, altri torneranno vivi. Molti morranno e non se ne saprà più nulla. Di fronte alla sospensione dell’attesa, il tempo di narrazione rallenta, fino a seguire quello naturale, aiutato da una direzione della fotografia e da suoni che rendono il racconto poetico e intimistico, vicino alla curiosità e alle paure dell’infanzia.
Il mistero della vita, di quando è recisa e di quando sta per sorgere, segue l’alternanza delle stagioni sull’alpeggio, tra nevi e fioriture. Quel tempo lontano, scandito da soprusi e ipocrisie, non era privo di semplici aneliti di pace. Le durezze familiari e il conforto nella fede tentavano, spesso inutilmente, semplicemente a riparare da pericoli e dolori più grandi.
In Vermiglio lo sguardo è originale in quanto autenticamente femminile, appassionato e privo di giudizio di fronte alla diserzione, al tradimento, alla scoperta del corpo o alla menzogna; e nell’incanto permanente dell’infanzia disarma l’ingiustizia della morte, spegnendo ogni rabbia nella bellezza di un presepe in sfida continua alla guerra, al peccato, alla morte. Le preghiere, il lavoro, lo studio, sostengono la comunità anche quando, mortalmente colpita, sembra sgretolarsi.
Il ruolo subalterno imposto alla donna, come serva dell’amore coniugale, può, vuole dire la Delpero, essere sovvertito, specie quando l’uomo perde il timone, perché incapace o indegno, se reso ariostescamente folle dalla guerra, o dall’amore. E una ragazza ferita può riaversi dalla sconfitta e varcare le sue montagne per buttare via il suo dolore sotto il cielo della Sicilia, dove l’imprevedibilità della vita l’ha condotta. A fine visione, poesia e realismo magico sfumano in una bellezza in parte algida. L’indagine del territorio e della comunità stempera i sentimenti in un minimalismo alla lunga irrealistico, che rende la guerra un fatto troppo lontano e sommesso.
Vermiglio è notevole, non epocale: come archetipo della civiltà contadina resiste ineguagliabile L’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi: le sue cascine, le pianure, il patriarcato violento, il dialetto bergamasco recitato da gente comune prestata al cinema, valsero la Palma d’Oro a Cannes nel 1978.
Vermiglio arriva secondo, nella luce azzurrognola delle valli, forse troppo composto e formale, nelle sonorità di interpreti abili nel parlare solandro, ma ancora lontano dal lasciare emozioni che squassino per sempre l’animo del pubblico.