Il Trono di Spade è senza alcun dubbio la serie cult di questo ventennio. Non solo perché ha rinnovato il genere della serie tv introducendo una politica della crudeltà che era sconosciuta al pubblico televisivo, ma anche perché come nella migliore tradizione della letteratura popolare è riuscita a unire, tramite lo strumento della serialità, milioni di telespettatori in tutto il mondo. L’inizio - e la fine - di ogni nuova stagione rappresentano un evento collettivo, uno spartiacque che segna i calendari degli appassionati. I gruppi di ascolto si fanno forza durante l’anno aspettando che arrivi aprile e si supportano quando a giugno la serie finisce. Perché il Trono di Spade, non è soltanto una serie tv, ma è un vero e proprio racconto collettivo, che non riguarda soltanto i nerd appassionati di fantasy, ma unisce un pubblico vasto ed eterogeneo, come nella migliore tradizione popolare.La storiaAl centro della storia ambientata nell’universo fantastico creato dalla mente psichedelica di George R. R. Martin nei volumi de le Cronache del ghiaccio e del fuoco (”A Song of Ice and Fire”), c’è lo scontro fra le casate regnanti per il dominio di Westeros a seguito della morte del re legittimo, Robert Baratheon. In realtà riassumere la trama è una missione impossibile perché le vicende del Trono di Spade attraversano due continenti, decine di popoli in guerra fra di loro, centinaia di casati nobiliari che partecipano alla lotta per il trono, migliaia di personaggi che cercano vendetta, e persino lo scontro apocalittico fra le forze del bene e del male. Insomma, talmente tanta roba che persino gli sceneggiatori David Benioff e D. B. Weiss hanno dovuto semplificare lo storyline originale tagliando alcune linee narrative ed economizzando sui personaggi.Il merito maggiore di Martin è, infatti, quello di aver creato un universo narrativo con talmente tanta dovizia di particolari dal renderlo quasi reale, quasi “storico” o meglio “meta-storico”. In questo senso, ogni personaggio, anche quelli minori, ha una storia che si intreccia con gli eventi del regno di Westeros. Micro e macro si mischiano come nelle migliori saghe epiche.L’amore per il torbidoOvviamente gli sceneggiatori della Hbo hanno dovuto operare delle scelte di fronte a cotanta ricchezza descrittiva, riuscendo però a mantenere la cifra caratteristica dell’immaginario di Martin, ovvero il suo amore per il torbido, la sua vocazione per l’imprevedibile e la sua politica della crudeltà nei confronti dei personaggi, a cui davvero non ne risparmia una.Sulla politica della crudeltà del Trono di Spade sono stati scritti saggi e tesi di dottorato. Prima del Trono di Spade, il pubblico televisivo era abituato alla classica semplificazione narrativa rassicurante in cui l’eroe, dopo qualche sofferenza, alla fine trionfava, mentre al cattivo di turno toccava una brutta fine. Insomma lo schema narrativo classico che da Omero alle fiction Rai con Sergio Castellitto, ci educato alla vita e che mantiene ancora un proprio valore catartico. Il Trono di Spade ha però rotto questa linearità narrativa sin dalla fine della prima serie quando al povero Eddard Stark- eroe integro in un mondo di corrotti - viene tagliata inaspettatamente la testa davanti alle proprie figlie. Questa scelta ha fatto sì che il pubblico si sentisse disorientato, ma estremamente intrigato da un prodotto televisivo non appiattito su regole e codici narrativi già scritti o meglio già visti.La vita e la morteDalla prima serie in poi, ogni stagione ci ha regalato colpi di scena e morti inaspettate dei personaggi più amati. Chi si aspettava il solito plot medievale con guerrieri erranti che salvano principesse eteree e indifese è rimasto spiazzato. Nel Trono di Spade non c’è nessun Lancillotto, non c’è nessuna catarsi, nessuna morale. E forse non c’è nessuna salvezza. Per citare la Regina Cersei, «quando si gioca al gioco dei Troni o si vince o si muore». Tutto il resto non conta.In questo Martin è imbattibile: a differenza di Tolkien che nella sua narrazione mantiene comunque un tratto epico, quasi lirico, Martin invece sguazza nel pulp. Forse la ragione è che mentre Tolkien, filologo e linguista, guardava all’epica medievale, l’ideatore del Trono di Spade, formatosi lavorando per la tv e il cinema di Hollywood, è un grande appassionato di horror e della letteratura fantascientifica.E infatti il New York Times ha infatti definito il lavoro di Martin un “fantasy per adulti”. Anche se è meglio dire che si tratta di un fantasy per adulti che vogliono tornare bambini.Il gusto sadicoLa dilatazione temporale prodotta dalla narrazione fantasy permette infatti di creare un universo a-storico, avulso dalla storia, in cui lo spettatore può ritornare bambino e riscoprire le paure ancestrali dei propri incubi infantili. Un universo simbolico in cui nella feroce battaglia fra bene e male, i buoni sono pochi e malridotti, mentre a vincere sono (quasi sempre) le forze del male. Ed è in questo contesto che allo spettatore-lettore non vengono risparmiati stupri, omicidi, violenze, torture, castrazioni, magia nera e persino cannibalismo perché, per citare uno dei personaggi della serie, la terribile sacerdotessa Melisandre, “la notte è buia e piena di terrore”. Evidentemente il merito della serialità televisiva è che, meglio del libro, fa diventare queste paure in qualche modo reali, rendendole collettive, come nella migliore tradizione horror. Ecco perché ogni scelta “crudele” dei due sceneggiatori David Benioff e D. B. Weiss provoca così tanto scalpore. Dallo stupro di Sansa Stark, che ha scatenato l’ira delle femministe, all’omicidio di Jon Snow, eroe amatissimo della serie che ha provocato proteste sul web.La crudeltà come cifra è una scelta talmente vincente che è stata presa in prestito da tutte le altre serie di successo - da House of Cards a Homeland - della tv via cavo o on-demand americana. Dopo il Trono di Spade, nessuna serie che aspira ad essere cult può proporre i copioni scontati che purtroppo infestano la programmazione italiana. Questa politica della crudeltà ha portato nuova linfa al genere, rompendo gli schemi rassicuranti della narrazione televisiva, e ha permesso al sadismo degli sceneggiatori del piccolo schermo di liberarsi dalle catene in cui erano costretti, esplorando nuovi territori narrativi.Cinema addioIl risultato è che oggi le serie tv americane sono prodotti di gran lunga migliori della media dei film in sala perché non annoiano mai, non sono mai banali, essendo obbligate a non ripercorrono percorsi già tracciati. Il Trono di Spade ha insomma alzato l’asticella. Lo spettatore-consumatore delle serie tv non si accontenta e vuole sempre di più. E’ affamato di contenuti, vuole lasciarsi sorprendere, atterrire, emozionare, eccitare. Fenomeni come Netflix o Hbo nascono proprio da questo bisogno, mentre al cinema impazzano noiosi franchising hollywoodiani sui supereroi della Marvel.In scena i corpiCerto, oltre alla politica della crudeltà, c’è anche un investimento significativo sulle scene di sesso. L’immaginario torbido di Martin, che vuole raccontare il lato oscuro dell’animo umano, non ci risparmia nulla: orge, sesso gay, stupri, bordelli, masochismo, incesto. Il tutto è però legato alla necessità di raccontare la storicità dei corpi che si ritrovano in un mondo sconvolto da guerre e crudeltà, dove non ci sono leggi e vige il caos. La lotta del potere non è avulsa, ma anzi riguarda i corpi, così come la guerra. La sessualità deve dunque far parte di questo racconto, non può essere certo rimossa.Almeno Martin, in questo meglio di Tolkien, ci risparmia personaggi femminili deboli e marginali. Le donne partecipano a pieno titolo alla guerra per il potere al pari degli uomini, non stanno a casa a cucire la calza o a sfornare i bambini (anche perché di solito questi fanno una brutta fine nei libri di Martin). Anzi. Le donne del Trono di Spade combattono, uccidono, guidano eserciti. Come Daenerys Targaryen, erede della vecchia dinastia spodestata che vuole riconquistare il trono con i suoi draghi. O la regina Cersei, crudele e spietata, vero villain della serie. In questo senso, il Trono di Spade rimette in discussione la visione per cui le donne non sono interessate al potere, anzi ne sono sempre povere vittime. I personaggi femminili creati da Martin non sono moralmente migliori di quelli maschili, non sono più buone, più pacifiche o più empatiche. Sono capaci di tutto. E questa è una grande consolazione.Inoltre, le serie televisive a differenza del cinema permettono allo spettatore di lasciarsi intrigare dallo sviluppo narrativo, affezionandosi ai personaggi, in un arco temporale vasto che va oltre le due ore cinematografiche, birra e pop corn.Ecco che i personaggi, come Jon Snow o Daenerys Targaryen, diventano allo stesso tempo iconici e familiari come nella migliore tradizione della letteratura popolare: perché ci fanno compagnia per lunghi periodi e non siamo costretti a lasciarli dopo una serata al cinema. La serialità permette ai personaggi di restare nelle nostre vite come nei grandi romanzi popolari, da Victor Hugo a Balzac. Lo spettatore ha un appuntamento settimanale con loro, impara a conoscerli, a scoprire i loro segreti e finisce per affezionarsi. La vera cifra del successo del Trono di Spade- Game of Thrones è proprio questa: la possibilità che ha lo spettatore di affezionarsi a un personaggio e tifare per il casato a cui appartiene. Nella guerra del trono, infatti ogni fazione porta avanti il proprio gioco. Dagli Stark ai Lannister, dai Targaryan ai Tyrell, ognuno muove la sua pedina, costruisce il suo piano, mette in atto i propri intrighi. In questo senso le vicende di Westeros, anche se ambientate in un universo fantasy, ci raccontano il potere come soltanto pochissime altre serie tv sono state capaci di fare. Ed è forse proprio questa distanza, figlia dell’irrealtà fantasy, che mette ancora più a nudo le dinamiche del potere e i limiti degli esseri umani che combattono per esso. Da questo punto di vista, House of Cards sembra molto meno realistico del Trono di Spade. Nel primo caso, si rappresenta una visione razionale e macchiavellistica del potere, personificata dalla coppia diabolica dei coniugi Underwood, mentre nel racconto di Martin vince una visione caotica, irrazionale, anarchica e spasmodica dello stesso.In questo caos psichedelico, in cui nessuno al sicuro, allo spettatore non rimane che scegliere da che parte stare.Ecco che ancora una volta, c’è un ritorno emotivo all’infanzia attraverso lo strumento della partigianeria che ha un grande potere simbolico. Gli amici si scambiano surreali dichiarazioni di appartenenza. “Io sono Stark”. “Io sto con i Tyrell”. “Io sono passato agli Estranei”. “Mio figlio è Lannister”.E su Facebook...Sui social impazzano i gruppi dei vari casati o fazioni con i loro vessilli. L’appartenenza ad uno di essi può dire molto sulla persona in questione: gli Stark per esempio, guardiani del Nord, sono giusti, frugali, severi, mentre i Lannister, sono spietati, ricchissimi e doppiogiochisti. Ognuno può così partecipare al “gioco” del trono sentendosi parte di una storia collettiva, attraverso l’appartenenza, unico rimedio contro l’imprevedibilità degli eventi e la crudeltà del fato, o meglio in questo caso, di George R. R. Martin.Adesso però con la settima stagione, la cui prima puntata è stata trasmessa ieri negli Stati Uniti (in Italia sarà trasmessa da Sky Atlantic), si entra in un territorio sconosciuto. Con l’omicidio di Jon Snow, la serie ha raggiunto la linea narrativa dei libri già pubblicate delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, mentre George R. R. Martin ancora non si decide a mandare in stampa l’attesissimo sesto volume della serie, Winds of Winter. Questo vuole dire che gli sceneggiatori avranno carta bianca sugli sviluppi della storia, anche se Martin rimane fra i produttori della serie e indubbiamente mantiene una grande influenza sullo storyline televisivo. Alcune indiscrezioni dicono però che la Hbo sia intenzionata a portare avanti la serie per altre due serie al massimo, dunque una fine va scritta malgrado Martin e le sue esigenze letterarie. Questa situazione segna un doloroso divorzio fra la serie e il libro. Per molti fan si tratta di una vera e propria liberazione, per altri di una blasfemia. C’è infatti un sottile, non-dichiarata tensione nella comunità degli appassionati fra chi preferisce i libri e chi lo sceneggiato. A mettere pace è lo stesso Martin che pur non essendo pronto a pubblicare gli ultimi due libri conclusivi, non vuole rinunciare ai benefici del successo planetario dello sceneggiato (tant’è che già pensa a possibili spin-off). Dunque, una fine va trovata per Westeros e il gioco dei Troni.Ecco che questa sesta stagione appena iniziata rappresenta per gli spettatori amanti della serie una nuova dimensione, finalmente fuori dal determinismo imposto dalla coerenza con il testo letterario, totalmente affidata al genio creativo del team di sceneggiatori. In questo senso, la politica della crudeltà e l’amore per l’imprevedibile di Martin potranno essere portati all’estrema potenza dagli autori della serie. Non rimane che vedere se David Benioff e D. B. Weiss saranno all’altezza delle aspettative.