Stephen King ha commentato la prima serie con un paio di tweet. Uno entusiasta, «E’ puro divertimento», l’altro più personale: « Stranger Things è come un Gratest Hits di Steve King. E lo intendo in senso positivo». Non era un mistero per chiunque avesse visto anche un solo episodio della fortunatissima serie, la cui seconda stagione sta bissando il successo della prima su Netflix da una settimana.

Stranger Thing non è “Stephen King senza Stephen King” ma molto di più: è un omaggio al ragazzo del Maine sotto ogni punto di vista, a partire dalla grafica del titolo trasportata di peso da quella dei romanzi anni ‘ 80 del re dell’horror moderno.

Poi, naturalmente ci sono le citazioni, che in questo caso sono qualcosa di più che semplici civetterie: il gruppo dei ragazzini protagonisti somiglia come una goccia di sangue ai personaggi di Stand By Me e soprattutto di It, la cui versione cinematografica, decisamente migliore di quella televisiva realizzata 27 anni fa, è sbarcata nelle sale italiane in tandem con l’arrivo su Netflix di Stranger Things 2. Undi, la bambina dotata di facoltà paranormali potenzialmente distruttive, è la gemella di Charlie, il personaggio creato da King in L’incendiaria, del 1980, e come lei deve i suoi poteri agli imprudenti esperimenti segreti americani degli anni ‘ 70 ( esperimenti effettivamente praticati, peraltro, non solo frutto di fantasia) ed è anche strettamente imparentata con Carrie, la telecinetica e disperata protagonista del primo romanzo di King.

L’apertura di un varco con un’altra dimensione, dalla quale gli abominii si trasferiscono nella nostra, rinvia a una quantità di romanzi kinghiani troppo folta per essere citata, incluso proprio il capolavoro It, ma è assolutamente identica a quella del racconto La nebbia, diventato a sua volta film nel 2007 e serie televisiva in quella specie di trionfo kinghiano che è stata l’estate di quest’anno, nella quale sono usciti anche altri due film tratti da suoi romanzi o racconti: Il gioco di Gerald e 1922.

Ma i riferimenti diretti sono ancora il meno: Stranger

Things è kinghiana perché kinghiane sono le atmosfere, le case, le strade di Hawkins, cittadina americana che si trova in Indiana ma potrebbe senza sforzo alcuno collocarsi nel Maine di re Stefano. I Duffer Brothers, creatori della serie, hanno voluto rendere il meno nascosti possibile i richiami al maestro e modello e il fatto che uno dei protagonisti, il quindicenne canadese Finn Wolfhard, sia anche tra i principali interpreti di It conferma la parentela stretta. Solo che King non è l’unico modello.

Quasi altrettanto marcata è l’impronta di Steven Spielberg: il primo Spielberg, quello di ET soprattutto ma anche di Incontri ravvicinati del terzo tipo e di Poltergeist.

La cifra di Spielberg, per tutta la trionfale prima fase della sua carriera, è stata una sorta di mistica dell’infantilità consistente non tanto nel mette-re in scena personaggi giovanissimi quanto nel guardare il mondo con i loro occhi, sino a rendere la presenza degli adulti tanto incombente e distruttiva quanto quasi invisibile in ET. Anche nella storia dei Duffer, dove pure non mancano personaggi adulti a partire da una strepitosa Wynona Rider, l’orrore è visto con gli occhi dei bambini ed è sopportabile proprio perché a guardarlo sono bambini. Se al loro posto ci fossero adulti, non reggerebbero all’impatto.

King, Spielberg e infine John Carpenter. L’influsso del grandissimo autore di Halloween e

Fuga da New York è più sottile, meno visibile a occhio nudo. Dietro l’apparente leggerezza della trama si annida infatti un aspetto cupo del tutto sconosciuto allo Spielberg degli anni ‘ 70 e ‘ 80 ma che campeggiava invece nei film più impegnati e inquietanti di Carpenter: Il signore del male, Il seme della follia, Essi vivono.

Nonostante l’ispirazione kinghiana, infatti, i fratelli Duffer si scostano dal maestro di Bangor in un punto essenziale. Nelle storie di King la normalità è sempre solcata da orrori reali, che di soprannaturale non hanno nulla e dei quali l’horror fantastico è sempre conseguenza, riflesso o amplificazione. Nella small town di Hawkins, invece, la normalità è davvero solare, neppure increspata dagli aspetti sinistri e mostruosi della vita d’ogni giorno. L’elemento inquietante è dato invece dalla consapevolezza che questa normalità si svolge sui margini di un abisso oscuro, è una patina sottile e illusoria dietro la quale si annida una realtà famelica e minacciosa. L’elemento sinistro deriva dalla lezione di H. P. Lovecraft, veicolata tuttavia dalla lettura che ne hanno dato negli anni ‘ 80 Carpenter e il Sam Raimi di La Casa.

King, Spielberg e Carpenter sono gli autori che negli anni 80 hanno rimodellato dalle fondamenta i criteri della visionarietà e della letteratura fantastica e horror. I gemelli Duffer sono nati a metà di quel decennio, nel 1984. La loro serie si svolge negli anni 80 e la versione cinematografica di It è spostata avanti di tre decenni rispetto al romanzo. Nel libro, uscito nel 1986, i protagonisti si scontravano due volte con il mostro in sembianze da clown: nel 1958, quando erano tutti bambini sfigatissimi, i “Losers” e poi da adulti, a metà degli 80. Il film, che in attesa della seconda parte tratta solo la prima parte della storia, è invece ambientato nell’ 88 e la seconda si svolgerà ai giorni nostri. Inevitabile, di conseguenza, leggere sia Stranger Things che It come una specie di nostalgico revival dell’ultimo decennio che la memoria rende felice. Un Happy Days in tinta horror.

Soprattutto nella serie tv, la rievocazione è invece più sofisticata. Gli anni ‘ 80, come ricordava Umberto Eco, sono il vero momento di svolta che modifica radicalmente la realtà e il mondo, il punto di partenza di un presente distante anni luce dai decenni precedenti la rivoluzione tecnologica iniziata e affermatasi allora. Citando e rielaborando gli autori che hanno rifondato i canoni fantastici, i Duffer puntano solo in superficie sulla nostalgia. Raccontano il presente, nella sua realtà e nelle sue ombre scure, ripercorrendone la genealogia. La nostalgia, nella fiction, ha sempre un effetto rasserenante, trasporta nel “come eravamo” indorato dalla magia spesso menzognera del ricordo. I frequenti ritorni al passato datato anni ‘ 80 di questi mesi hanno una funzione opposta, e dunque, persino in una serie che, come scrive King, «è puro divertimento», non rasserenano. Se non raccontano “come siamo”, descrivono in compenso perché siamo come siamo, come è cominciata l’epoca in cui ci troviamo, dove hanno iniziato a prendere forma gli spettri che la popolano. E del resto cosa c’è di più kinghiano del raccontare la realtà come un maestro del realismo travestendola appena con un manto fantastico?