E per venir finalmente all'applicazione, era insegnamento comune, e quasi universale de' dottori, che la bugia dell'accusato nel rispondere al giudice, fosse uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla tortura. Ecco perché l'esaminatore dell'infelice Piazza gli oppose, non essere verisimile che lui non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta Ticinese, e che non sapesse il nome de' deputati coi quali aveva avuto che fare.Ma insegnavan forse che bastasse una bugia qualunque?"La bugia, per fare indizio alla tortura, deve riguardar le qualità e le circostanze sostanziali del delitto, cioè che appartengano ad esso, e dalle quali esso si possa inferire; altrimenti no:  alias secus. ""La bugia non fa indizio alla tortura, se riguarda cose che non aggraverebbero il reo, quando le avesse confessate. "E bastava, secondo loro, che il detto dell'accusato paresse al giudice bugia, perché questo potesse venire ai tormenti?"La bugia per fare indizio alla tortura dev'esser provata concludentemente, o dalla propria confession del reo, o da due testimoni... essendo dottrina comune che due sian necessari a provare un indizio remoto, quale è la bugia ". Cito, e citerò spesso il Farinacci, come uno de' più autorevoli allora, e come gran raccoglitore dell'opinioni più ricevute. Alcuni però si contentavano d'un testimonio solo, purché fosse maggiore d'ogni eccezione. Ma che la bugia dovesse risultar da prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina comune e non contradetta.Tali condizioni eran dedotte da quel canone della legge romana, il quale proibiva (che cose s'è ridotti a proibire, quando se ne sono ammesse cert'altre!) di cominciar dalla tortura. "Non diremo certamente che tutto questo sia ragionevole; giacché non può esserlo ciò che implica contradizione. Erano sforzi vani, per conciliar la certezza col dubbio, per evitare il pericolo di tormentare innocenti, e d'estorcere false confessioni, volendo però la tortura come un mezzo appunto di scoprire se uno fosse innocente o reo, e di fargli confessare una data cosa. La conseguenza logica sarebbe stata di dichiarare assurda e ingiusta la tortura; ma a questo ostava l'ossequio cieco all'antichità e al diritto romano. Quel libriccino «Dei delitti e delle pene», che promosse, non solo l'abolizion della tortura, ma la riforma di tutta la legislazion criminale, cominciò con le parole: "Alcuni avanzi di leggi d'un antico popolo conquistatore. " E parve, com'era, ardire d'un grand'ingegno: un secolo prima sarebbe parsa stravaganza. Né c'è da maravigliarsene: non s'è egli visto un ossequio dello stesso genere mantenersi più a lungo, anzi diventar più forte nella politica, più tardi nella letteratura, più tardi ancora in qualche ramo delle Belle Arti? Viene, nelle cose grandi, come nelle piccole, un momento in cui ciò che, essendo accidentale e fattizio, vuol perpetuarsi come naturale e necessario, è costretto a cedere all'esperienza, al ragionamento, alla sazietà, alla moda, a qualcosa di meno, se è possibile, secondo la qualità e l'importanza delle cose medesime; ma questo momento dev'esser preparato. Ed è già un merito non piccolo degl'interpreti, se, come ci pare, furon essi che lo prepararono, benché lentamente, benché senz'avvedersene, per la giurisprudenza.Ma le regole che pure avevano stabilite, bastano in questo caso a convincere i giudici, anche di positiva prevaricazione. Vollero appunto costoro cominciar dalla tortura. Senza entrare in nulla che toccasse circostanze, né sostanziali né accidentali, del presunto delitto, moltiplicarono interrogazioni inconcludenti, per farne uscir de' pretesti di dire alla vittima destinata: non è verisimile; e, dando insieme a inverisimiglianze asserite la forza di bugie legalmente provate, intimar la tortura. È che non cercavano una verità, ma volevano una confessione: non sapendo quanto vantaggio avrebbero avuto nell'esame del fatto supposto, volevano venir presto al dolore, che dava loro un vantaggio pronto e sicuro: avevan furia. Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevan nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui!Si dirà forse che, in faccia alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne' delitti più atroci fosse lecito oltrepassare il diritto? Lasciamo da parte che l'opinion più comune, anzi quasi universale, de' giureconsulti, era (e se al ciel piace, doveva essere) che una tal massima non potesse applicarsi alla procedura, ma soltanto alla pena; "giacché, " per citarne uno, "benché si tratti d'un delitto enorme, non consta però che l'uomo l'abbia commesso; e fin che non consti, è dovere che si serbino le solennità del diritto".E solo per farne memoria, e come un di que' tratti notabili con cui l'eterna ragione si manifesta in tutti i tempi, citeremo anche la sentenza d'un uomo che scrisse sul principio del secolo decimoquinto, e fu, per lungo tempo dopo, chiamato il Bartolo del diritto ecclesiastico, Nicolò Tedeschi, arcivescovo di Palermo, più celebre, fin che fu celebre, sotto il nome d'Abate Palermitano: "Quanto il delitto è più grave, " dice quest'uomo, "tanto più le presunzioni devono esser forti; perché, dove il pericolo è maggiore, bisogna anche andar più cauti". Ma questo, dico, non fa al nostro caso (sempre riguardo alla sola giurisprudenza), poiché il Claro attesta che nel foro di Milano prevaleva la consuetudine contraria; cioè era, in que' casi, permesso al giudice d'oltrepassare il diritto, anche nell'inquisizione. "Regola", dice il Riminaldi, altro già celebre giureconsulto, "da non riceversi negli altri paesi"; e il Farinacci soggiunge: "ha ragione".Ma vediamo come il Claro medesimo interpreti una tal regola: "si viene alla tortura, quantunque gl'indizi non siano in tutto sufficienti (in totum sufficientia), né provati da testimoni maggiori d'ogni eccezione, e spesse volte anche senza aver data al reo copia del processo informativo". E dove tratta in particolare degl'indizi legittimi alla tortura, li dichiara espressamente necessari "non solo ne' delitti minori, ma anche ne' maggiori e negli atrocissimi, anzi nel delitto stesso di lesa maestà". Si contentava dunque d'indizi meno rigorosamente provati, ma li voleva provati in qualche maniera; di testimoni meno autorevoli, ma voleva testimoni; d'indizi più leggieri, ma voleva indizi reali, relativi al fatto; voleva insomma render più facile al giudice la scoperta del delitto, non dargli la facoltà di tormentare, sotto qualunque pretesto, chiunque gli venisse nelle mani. Son cose che una teoria astratta non riceve, non inventa, non sogna neppure; bensì la passione le fa.Intimò dunque l'iniquo esaminatore al Piazza:  che dica la verità per qual causa nega di sapere che siano state onte le muraglie, et di sapere come si chiamino li deputati, che altrimente, come cose inuerisimili, si metterà alla corda, per hauer la verità di queste inuerisimilitudini. - Se me la vogliono anche far attaccar al collo, lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne so niente, rispose l'infelice, con quella specie di coraggio disperato, con cui la ragione sfida alle volte la forza, come per farle sentire che, a qualunque segno arrivi, non arriverà mai a diventar ragione.E si veda a che miserabile astuzia dovettero ricorrer que' signori, per dare un po' più di colore al pretesto. Andarono, come abbiam detto, a caccia d'una seconda bugia, per poter parlarne con la formola del plurale; cercarono un altro zero, per ingrossare un conto in cui non avevan potuto fare entrar nessun numero.È messo alla tortura; gli s'intima che si risolua di dire la verità; risponde, tra gli urli e i gemiti e l'invocazioni e le supplicazioni: l'ho detta, signore. Insistono.  Ah per amor di Dio! grida l'infelice:  V. S. mi facci lasciar giù, che dirò quello che so; mi facci dare un po' d'aqua. È lasciato giù, messo a sedere, interrogato di nuovo; risponde:  io non so niente; V. S. mi facci dare un poco d'aqua.Quanto è cieco il furore! Non veniva loro in mente che quello che volevan cavargli di bocca per forza, avrebbe potuto addurlo lui come un argomento fortissimo della sua innocenza, se fosse stato la verità, come, con atroce sicurezza, ripetevano. - Sì, signore, - avrebbe potuto rispondere: - avevo sentito dire che s'eran trovati unti i muri di via della Vetra; e stavo a baloccarmi sulla porta di casa vostra, signor presidente della Sanità! - E l'argomento sarebbe stato tanto più forte, in quanto, essendosi sparsa insieme la voce del fatto, e la voce che il Piazza ne fosse l'autore, questo avrebbe, insieme con la notizia, dovuto risapere il suo pericolo. Ma questa osservazion così ovvia, e che il furore non lasciava venire in mente a coloro, non poteva nemmeno venire in mente all'infelice, perché non gli era stato detto di cosa fosse imputato. Volevan prima domarlo co' tormenti; questi eran per loro gli argomenti verosimili e probabili, richiesti dalla legge; volevan fargli sentire quale terribile, immediata conseguenza veniva dal risponder loro di no; volevano che si confessasse bugiardo una volta, per acquistare il diritto di non credergli, quando avrebbe detto: sono innocente. Ma non ottennero l'iniquo intento. Il Piazza, rimesso alla tortura, alzato da terra, intimatogli che verrebbe alzato di più, eseguita la minaccia, e sempre incalzato a dir la verità, rispose sempre:  l'ho detta; prima urlando, poi a voce bassa; finché i giudici, vedendo che ormai non avrebbe più potuto rispondere in nessuna maniera, lo fecero lasciar giù, e ricondurre in carcere.Riferito l'esame in senato, il giorno 23, dal presidente della Sanità, che n'era membro, e dal capitano di giustizia, che ci sedeva quando fosse chiamato, quel tribunale supremo decretò che: "il Piazza, dopo essere stato raso, rivestito con gli abiti della curia, e purgato, fosse sottoposto alla tortura grave, con la legatura del canapo", atrocissima aggiunta, per la quale, oltre le braccia, si slogavano anche le mani; "a riprese, e ad arbitrio de' due magistrati suddetti; e ciò sopra alcune delle menzogne e inverisimiglianze risultanti dal processo".Il solo senato aveva, non dico l'autorità, ma il potere d'andare impunemente tanto avanti per una tale strada. La legge romana sulla ripetizion de' tormenti, era interpretata in due maniere; e la men probabile era la più umana. Molti dottori (seguendo forse Odofredo, che è il solo citato da Cino di Pistoia, e il più antico de' citati dagli altri) intesero che la tortura non si potesse rinnovare, se non quando fossero sopravvenuti nuovi indizi, più evidenti de' primi, e, condizione che fu aggiunta poi, di diverso genere. Molt'altri, seguendo Bartolo, intesero che si potesse, quando i primi indizi fossero manifesti, evidentissimi, urgentissimi; e quando, condizione aggiunta poi anche questa, la tortura fosse stata leggiera. Ora, né l'una, né l'altra interpretazione faceva punto al caso. Nessun nuovo indizio era emerso; e i primi erano che due donne avevan visto il Piazza toccar qualche muro; e, ciò ch'era indizio insieme e corpo del delitto, i magistrati avevan visto alcuni segni di materia ontuosa su que' muri abbruciacchiati e affumicati, e segnatamente in un andito... dove il Piazza non era entrato. Di più, quest'indizi, quanto manifesti, evidenti e urgenti, ognun lo vede, non erano stati messi alla prova, discussi col reo. Ma che dico? il decreto del senato non fa neppur menzione d'indizi relativi al delitto, non applica neppur la legge a torto; fa come se non ci fosse.Contro ogni legge, contro ogni autorità, come contro ogni ragione, ordina che il Piazza sia torturato di nuovo,  sopra alcune bugie e inverisimiglianze; ordina cioè a' suoi delegati di rifare, e più spietatamente, ciò che avrebbe dovuto punirli d'aver fatto. Perciocché era (e poteva non essere?) dottrina universale, canone della giurisprudenza, che il giudice inferiore, il quale avesse messo un accusato alla tortura senza indizi legittimi, fosse punito dal superiore.Ma il senato di Milano era tribunal supremo; in questo mondo, s'intende. E il senato di Milano, da cui il pubblico aspettava la sua vendetta, se non la salute, non doveva essere men destro, men perseverante, men fortunato scopritore, di Caterina Rosa. Ché tutto si faceva con l'autorità di costei; quel suo:  all'hora mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno de quelli,  com'era stato il primo movente del processo, così n'era ancora il regolatore e il modello; se non che colei aveva cominciato col dubbio, i giudici con la certezza. E non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d'una o di due donnicciole; giacché, quando s'è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino. Non paia strano il veder uomini i quali non dovevan essere, anzi non eran certamente di quelli che vogliono il male per il male, vederli, dico, violare così apertamente e crudelmente ogni diritto; giacché il credere ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione possa condurre; e se la coscienza esita, s'inquieta, avverte, le grida d'un pubblico hanno la funesta forza (in chi dimentica d'avere un altro giudice) di soffogare i rimorsi; anche d'impedirli.Il motivo di quelle odiose, se non crudeli prescrizioni, di tosare, rivestire, purgare, lo diremo con le parole del Verri. "In quei tempi credevasi che o ne' capelli e peli, ovvero nel vestito, o persino negli intestini trangugiandolo, potesse avere un amuleto o patto col demonio, onde rasandolo, spogliandolo e purgandolo ne venisse disarmato". E questo era veramente de' tempi; la violenza era un fatto (con diverse forme) di tutti i tempi, ma una dottrina di nessun tempo.Quel secondo esame non fu che una ugualmente assurda e più atroce ripetizione del primo, e con lo stesso effetto. L'infelice Piazza, interrogato prima, e contradetto con cavilli, che si direbbero puerili, se a nulla d'un tal fatto potesse convenire un tal vocabolo, e sempre su circostanze indifferenti al supposto delitto, e senza mai accennarlo nemmeno, fu messo a quella più crudele tortura che il senato aveva prescritta. N'ebbero parole di dolor disperato, parole di dolor supplichevole, nessuna di quelle che desideravano, e per ottener le quali avevano il coraggio di sentire, di far dire quell'altre.  Ah Dio mio! ah che assassinamento è questo! ah Signor fiscale!... Fatemi almeno appiccar presto... Fatemi tagliar via la mano... Ammazzatemi; lasciatemi almeno riposar un poco. Ah! signor Presidente!... Per amor di Dio, fatemi dar da bere;  ma insieme:  non so niente, la verità l'ho detta.  Dopo molte e molte risposte tali, a quella freddamente e freneticamente ripetuta istanza di dir la verità, gli mancò la voce, ammutolì; per quattro volte non rispose; finalmente poté dire ancora una volta, con voce fioca;  non so niente; la verità l'ho già detta.  Si dovette finire, e ricondurlo di nuovo, non confesso, in carcere.E non c'eran più nemmen pretesti, né motivo di ricominciare: quella che avevan presa per una scorciatoia, gli aveva condotti fuor di strada. Se la tortura avesse prodotto il suo effetto, estorta la confession della bugia, tenevan l'uomo; e, cosa orribile! quanto più il soggetto della bugia era per sé indifferente, e di nessuna importanza, tanto più essa sarebbe stata, nelle loro mani, un argomento potente della reità del Piazza, mostrando che questo aveva bisogno di stare alla larga dal fatto, di farsene ignaro in tutto, in somma di mentire. Ma dopo una tortura illegale, dopo un'altra più illegale e più atroce, o grave, come dicevano, rimettere alla tortura un uomo, perché negava d'aver sentito parlare d'un fatto, e di sapere il nome de' deputati d'una parrocchia, sarebbe stato eccedere i limiti dello straordinario. Eran dunque da capo, come se non avessero fatto ancor nulla; bisognava venire, senza nessun vantaggio, all'investigazion del supposto delitto, manifestare il reato al Piazza, interrogarlo. E se l'uomo negava? se, come aveva dato prova di saper fare, persisteva a negare anche ne' tormenti? I quali avrebbero dovuto essere assolutamente gli ultimi, se i giudici non volevano appropriarsi una terribil sentenza d'un loro collega, morto quasi da un secolo, ma la cui autorità era viva più che mai, il Bossi citato sopra. "Più di tre volte, " dice, "non ho mai visto ordinar la tortura, se non da de' giudici boia:  nisi a carnificibus. " E parla della tortura, ordinata legalmente!