Epico, enigmatico e silenzioso. Così è vissuto, così anche se n'è andato Leonard Cohen: nessun dettaglio, solo un annuncio della sua casa discografica, la Sony Music, tre giorni dopo la morte, che risale al 7 novembre nella sua casa di Los Angeles. Come testamento, invece, il suo quattordicesimo album You want it darker, pubblicato poche settimane fa, in cui ripete «I'm ready, my Lord».Nato a Montrèal, in Canada, da una famiglia di immigrati ebrei, Cohen è stato prima di tutto un poeta prestato alla musica. «Voglio essere solo un poeta minore», aveva detto a inizio carriera, dopo la pubblicazione nel 1956 della prima raccolta Let us compare mythologies: in cinquant'anni di musica, le sue canzoni sono considerate tra le massime espressioni del cantautorato del Novecento.Artista raffinato e introverso, alla musica arrivò tardi: aveva 33 anni e una carriera da poeta e romanziere già avviata. Il primo album, Songs of Leonard Cohen esce nel 1967 in controtendenza rispetto ai songwriter rivoluzionari della Hippie generation: le canzoni di Cohen raccontano di amore e morte, di peccati e redenzione e la cifra comune è la malinconia, raccontata con una «voce di rasoio arrugginito» che lo ha reso inconfondibile. Di questa prima raccolta, inizialmente accolta con freddezza e oggi considerata pietra miliare del cantautorato, fanno parte due dei suoi brani più famosi: Suzanne, l'ode a una la ballerina «mezza matta, che ti offriva te e arance che vengono dalla Cina», e Sisters of Mercy.«La mia reputazione di dongiovanni è uno scherzo. Mi ha fatto ridere amaramente nelle diecimila notti che ho passato da solo», ha detto durante un'intervista a chi gli chiedeva delle sue molte muse, a cui ha dedicato alcuni tra i suoi capolavori. Una sola donna, però, non ha mai dimenticato: la Marianne Ihlen conosciuta in Grecia negli anni Sessanta, per la quale aveva scritto l'indimenticabile So Long, Marianne, scomparsa tre mesi fa e da lui salutata con parole che oggi suonano come un annuncio, «so di esserti così vicino che se tu allungassi la mano, potresti raggiungere la mia». Cinico e disincantato ma allo stesso tempo mistico, Cohen ha messo in musica la sua ricerca spirituale e religiosa, scrivendo quella che è rimasta la sua canzone più suonata dagli artisti di tutto il mondo con oltre 200 cover, da Bob Dylan ad Annie Lennox. Hallelujah, pubblicata nel 1984 nell'album Various Positions e costata cinque anni di riscritture, è diventata il simbolo di Cohen, con i suoi richiami al Vecchio Testamento mischiati a un'ode al «Dio della canzone», per il quale canta di «aver fatto del mio meglio, anche se non è molto». Nella stessa raccolta è contenuta anche la sua altra canzone iconica Dance me to the end of love, ballata tragica ispirata all'orchestra che accompagnava gli ebrei alle camere a gas nei campi di concentramento, «scritta - ha raccontato lo stesso Cohen - con lo stesso linguaggio che si usa per la resa ad un'innamorata».Di Leonard Cohen, il signore vestito di nero che di sé diceva «sono nato in un abito elegante» e che si esibiva in concerti lunghi anche quattro ore, rimangono oggi un tesoro di centinaia di canzoni - di cui 9 appena pubblicate per farci sentire meno soli - e una grande nostalgia.