Secondo il grande poeta Giuseppe Ungaretti, che sarebbe morto nel 1970, un anno dopo l’allunaggio, la conquista della luna non avrebbe cambiato nulla per scrittori e sognatori. «Questa è una notte diversa da ogni altra notte del mondo. Ogni uomo ha desiderato da sempre conquistare la luna… oggi è stato raggiunto l’irraggiungibile, ma la fantasia non si fermerà…». E oltre a scriverlo in prosa, lo scrisse anche in versi. Meravigliosi versi, come tanti di quelli che qui vi riproporremo e che parlano della nostra “sorella”. «La luna rimarrà la luna/ E ci saranno sempre/ Giovani che di sera/ Al suo lume appartati/ Si sorprenderanno/ a dire le parole felici...».

Ma è davvero così: non è cambiato nulla da quando, 50 anni fa, Neil Armstrong mise il primo piede sulla superficie che, fino a quel momento, era rimasta confinata nel mito? Secondo il filosofo greco Platone si desidera ciò che non si ha, ciò che non si è. E allora c’è da chiedersi se la conoscenza non ci abbia resi più aridi, se non siamo diventati incapaci di vederla e di amarla come un tempo. Se non ci siamo ormai chiusi nel nostro orticello, concentrati sul dito, sulle piccole beghe, incapaci di sognare, di vedere oltre il nostro stesso orizzonte.

La luna compare fin da subito nella letteratura greca e romana, passa attraverso il Paradiso della Commedia dantesca, e approda dritta all’Orlando

Furioso, il capolavoro trasgressivo di Ariosto, pubblicato per la prima volta a Ferrara nel 1516. È forse uno degli episodi più emblematici del ruolo che la cultura occidentale ha attribuito al suo prezioso ed evocativo satellite. Astolfo viene spedito sul corpo celeste a recuperare il senno di Orlando: se non dovesse riuscirci, l’eroe furioso non potrà sconfiggere i pagani. Quello che trova davanti a sé Astolfo è bellissimo: «Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:/ che quel paese appresso era sì grande,/ il quale a un picciol tondo rassimiglia/ a noi che lo miriam da queste bande;/ e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,/ s’indi la terra e ’ l mar ch’intorno spande,/ discerner vuol; che non avendo luce,/ l’imagin lor poco alta si conduce./ Altri fiumi, altri laghi, altre campagne/ sono là su, che non son qui tra noi;/ altri piani, altre valli, altre montagne,/ c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,/ con case de le quai mai le più magne/ non vide il paladin prima né poi:/ e vi sono ample e solitarie selve,/ ove le ninfe ognor cacciano belve./ Non stette il duca a ricercar il tutto;/ che là non era asceso a quello effetto./ Da l’apostolo santo fu condutto/ in un vallon fra due montagne istretto,/ ove mirabilmente era ridutto/ ciò che si perde o per nostro diffetto,/ o per colpa di tempo o di Fortuna:/ ciò che si perde qui, là si raguna...».

Versi che ci scaraventano in un altro mondo. Ci rassomiglia, ma non siamo noi. È come noi, ma diverso. È il meglio di quello che siamo, quasi uno scrigno in cui sono custodite le cose migliori che la vita ci riserva. La luna, che risplende misteriosa, è nostra sorella, ma anche la porta verso l’ignoto, una sorta di siepe leopardiana di dimensioni gigantesche che allo stesso tempo occlude e apre all’infinito. È la nostra gemella, la nostra sorella luna, come la chiama San Francesco nel Cantico delle creature, l’ouverture della letteratura italiana: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle».

Giacomo Leopardi la guarda con un’attenzione unica, uno sguardo che resta d’amore anche quando il desiderio è tradito, la passione preclusa, il dolore vincente. La luna per lui è tante cose, è uno specchio del suo sentire, una traccia che ripercorre le sue opere. È bellezza, filosofia. È disperazione. «O graziosa luna, io mi rammento/ Che, or volge l'anno, sovra questo colle/ Io venia pien d'angoscia a rimirarti...». Ancorché graziosa è legata alla sofferenza, al “rimembrar” come tormento. Ma è nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia

che la luna assume le sembianze di una madre dura e indifferente alla sofferenza di noi umani. È l’emblema del fatto che la natura non si interessa della sorte di noi umani: «Se la vita è sventura,/ Perché da noi si dura?/ Intatta luna, tale/ È lo stato mortale./ Ma tu mortal non sei,/ E forse del mio dir poco ti cale...». È il Leopardi filosofo materialista che piace agli studiosi della Scuola di Francoforte, il pessimista cosmico che riporta la condizione umana alle sue contraddizioni, il poeta che anche nella luna vede quel garbuglio di attese, delusioni, vita e morte. Il romanticismo riporterà la luna alla sua dimensione più edulcorata, sdolcinata ma l’affermazione finale del pastore errante ne bilancia per sempre l’entusiasmo: «O forse erra dal vero,/ Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:/ Forse in qual forma, in quale/ Stato che sia, dentro covile o cuna,/ È funesto a chi nasce il dì natale». Sarà però La Ginestra, il suo poema testamento, a redimere questa visione sconsolata: l’alternativa per Leopardi è la resistenza, la tenacia, la lotta.

IL VECCHIO E IL NUOVO

L’immagine “angelicata” costruita durante il romanticismo perdura ancora oggi. La luna resta sinonimo di amore, innamoramento, gentilezza, notti di passione senza sesso. Ma l’altra faccia, quella oscura, resta sempre viva. Nel Caligola, l’opera teatrale dell’esistenzialista Albert Camus, il protagonista la vuole a tutti i costi. Perché? «Mah - risponde Caligola - perché è una delle cose che non ho». È la follia del potere, la sua ingordigia, il volere qualcosa senza desiderio.

Negli anni 60 “volere la luna” diventa invece emblema della rivolta, del cambiamento, del fatto che una generazione, come ha scritto Nanni Balestrini, il grande scrittore appena scomparso, “voleva tutto”. E’ l’utopia che la realtà si possa e debba modificare. Oggi sembra che questa spinta si sia spenta. Nella politica e nella società. Si guarda il dito e non la luna, in quasi tutto. Ci si perde nei particolari, nelle piccole e misere cose, nella dimensione più realistica e non si guarda oltre. Colpa della luna diventata troppo vicina? Forse un pochino sì. Ma come abbiamo visto nei secoli, la nostra sorella è più che altro uno specchio di ciò che siamo e se guardandola non riusciamo più a sognare o sperare non è colpa sua, è colpa nostra. «Un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità», disse Armstrong nella notte tra il 20 e il 21 luglio del 1969. Quei passi vanno tenuti vivi, soprattutto quando si ha l’ambizione di non arrendersi all’esistente, ma di guardare la luna e sperare di raggiungerla.