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Caro Direttore, La storia che Le racconto è vera. I nomi modificati per rispetto della privacy. Le circostanze un po’ “abbellite”. Ma la sostanza è rimasta intatta: anche gli avvocati hanno un cuore.La telefonata arriva di prima mattina. Sto infilando la capsula nella macchina del caffè, tutta qui la mia sanissima prima colazione. “Ciao Stefano, che succede?” “Niente” “Che vuol dire niente? Mi chiami alle 7,30 perché ti senti solo?” “Ti sei svegliato male?” “No, è che di solito non chiami a quest’ora” “Comunque volevo dirti che ieri mi ha telefonato Enrico, Enrico Perini” “E chi è?” “Ah già, co’ sta storia della memoria perduta, te ricordi solo quello che te pare” Stefano calca l’accento romano “No, non mi ricordo proprio niente degli ultimi quindi anni” “Allora Enrico te lo dovresti ricordare, ci abbiamo fatto il liceo insieme” Effettivamente sì, adesso me lo ricordo: un compagno di scuola di quelli che già ti stavano non proprio simpaticissimi al liceo e, crescendo, quando hai avuto la sfortuna di rivederlo in improbabili rimpatriate, hai perfettamente capito perché vi eravate persi di vista dopo la maturità. Di quelli che raccontano sempre gli stessi aneddoti (che tu nemmeno ricordi, pur essendone un protagonista e facendo spesso la figura del cretino). Di quelli che sembra che la loro vita si sia fermata a diciott’anni, che dopo non hanno combinato niente di memorabile, ma che lo raccontano come avessero partecipato allo sbarco sulla luna e tu, mentre ascolti, pensi alle ragioni (degne di uno psicanalista, pure bravo) che ti hanno spinto per l’ennesima volta a partecipare a queste reunion. “Ci vuole a cena stasera” Stefano interrompe il flusso dei miei spiacevoli pensieri. “Anche a me? Perché?” “Non sai niente, vero? Comunque non fare il sòla che stasera è importante” Stefano riattacca dopo questa apodittica affermazione. Così trascorro la giornata a chiedermi cos’è che dovrei sapere di Perini che non so. Cerco su internet notizie su Enrico, ma niente. Mando inutili whatsapp a Stefano che non mi risponde. Per fortuna il lavoro distrae. Comunque, incuriosito dalla presunta importanza che Stefano ascrive alla mia presenza, alle nove di sera entro in un ex vivaio, oggi ristorante sedicente chic, abbarbicato su Monte Mario, sopra lo stadio, uno di quei posti dove un cuoco, aspirante Masterchef, ti propone una carbonara con pelle croccante di baccalà al posto del guanciale, come fosse un decisivo passo avanti per il progresso dell’umanità. Una ragazza molto carina, in abiti succinti, mi accompagna al tavolo. In questo tipo di posti, tutti i tavoli sono diversi uno dall’altro, così le sedie e i bicchieri. Non ho mai capito se sia la scelta di un architetto schizofrenico o la necessità di riciclare i vecchi mobili che i proprietari hanno accatastato in qualche cantina dopo aver venduto casa di pora nonna. Sono il primo, al tavolo c’è seduto solo Enrico. Mentre mi avvicino penso che adesso dovrò parlare con questo rompiballe da solo in attesa del soccorso di Stefano. Mi avvicino per salutarlo ed Enrico… si tira indietro, sulla sua sedia a rotelle, e mi sorride allungandomi la mano. Ecco cosa avrei dovuto sapere. Resto impietrito e si vede. “Allora è vero che non ricordi niente degli ultimi quindici anni – commenta Enrico sorridendo – hai fatto una faccia” “Scusami” balbetto “E di che? Mica è colpa tua” e dice queste ultime parole toccando i braccioli della sedia, come a significare: è capitato, non c’è una ragione, solo sfiga. Prima che arrivino gli altri, Enrico mi spiega velocemente che un paio di anni prima, mentre stava correndo (“Ti ricordi che mi piaceva correre? Ho fatto pure la maratona di Boston. Ma tu non ti ricordi un cazzo”), senza alcuna ragione è caduto su un tratto pianeggiante senza ostacoli. Dopo pochi giorni lo stesso episodio gli era successo in casa, mentre portava a tavola la pasta (“tra l’altro un casino, ho inondato di matriciana mia suocera” e ride dell’aneddoto). Allora aveva deciso di fare dei controlli ed era arrivata la diagnosi: SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica. Quelle tre parole rimangono lì, sospese nell’aria… in quel momento arriva Stefano insieme ad altri due colleghi avvocati (Michele e Carlo) che salutano calorosamente Enrico e pure me che, al solito, me li ricordo a mala pena. La cena è stata organizzata perché Enrico ha deciso di partecipare alla prossima edizione del championnat du monde de joelette, una corsa campestre che si svolge in Francia, ogni anno. Una persona disabile e quattro compagni corrono in mezzo ai boschi, per 12 Km, contendendosi una simbolica coppa del mondo, ognuno con i colori della propria nazione. La joelette è la sedia a rotelle, attrezzata per la corsa, sulla quale siede il disabile (“insomma l’handicappato, cioè io” ride Enrico) che viene spinto dai quattro corridori che devono anche stare attenti a non farlo cadere. Lo vuole fare prima che sia troppo tardi. Lo vuole fare perché ha due figli ancora piccoli (di nove e tredici anni) e vorrebbe che lo vedessero ancora “vivo” (usa proprio quella parola), prima che la malattia peggiori le sue condizioni. A quel punto tira fuori da una sacca quattro divise azzurre e ce le consegna: “Adesso siete ufficialmente la mia squadra”. Dapprima ci guardiamo perplessi, poi scatta il brindisi con uno “suavignant blanc in purezza, con l’inconfondibile aroma di peperone e di pipì di gatto che lo rende tra i migliori d’Italia”, come ha detto il tizio che ce l’ha servito e tu pensi “ecco, mò te lo bevi te, caro il mio pseudo sommelier”. Tornato a casa, trovo mio figlio che ancora sta studiando. Tra qualche giorno ha patologia generale. Si ricorda, Direttore, di mio figlio Marco, quello che si è iscritto a Medicina perché non voleva una vita come la mia? “La SLA – mi spiega, ripassando - è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da una perdita progressiva di motoneuroni che porta a paralisi e morte precoce. Colpisce da uno a tre individui ogni 100.000 persone. Le cause sono in gran parte sconosciute, sebbene siano stati identificati recentemente diversi geni causativi: perché ti interessa?” “Insomma è scritto nel DNA” “Pare di sì” “Alla fine è solo una questione di fortuna” “Come tutte le malattie, papà. È l’accesso alle cure che non è democratico, la malattia non fa distinzioni di censo o di posizione”.“E quale è l’aspettativa di sopravvivenza?” “Tre, cinque anni dall’esordio”Annuisco: “Allora è deciso, si va in Francia”. Marco mi guarda senza capire. Passo i successivi due mesi a cercare di trovare una forma fisica decente. No, anzi, direi accettabile. Forse nemmeno, la definizione potrebbe essere sufficiente a non essere proprio il più scarso di tutti. No, ci sono: una forma fisica che mi permetta di terminare la corsa senza eccessivi rischi cardiaci. Decido di sfruttare le pause pranzo per andare a correre sul Lungotevere. Mi infilo la divisa che mi ha dato Enrico. Ero rimasto a quando si andava a correre in tuta e maglietta, una quindicina di anni fa. È tutto cambiato. Adesso ci si infila in una specie di pantacollant che ci vuole il calzante e, quando esci da studio, sembri Troisi vestito da uomo del 1300 (questa la capiscono quelli della mia generazione) che ti viene istintivo coprirti le pudenda appena incroci lo sguardo spietato del portiere. Sopra una maglietta tecnica, anch’essa ultra aderente, non proprio adatta ad un cinquantenne con la panza un po’ sblusata. Peraltro questa divisa ha pure scritto Armati sulle spalle (tipo calciatore), così che, se qualcuno, che ti conosce, avesse il dubbio che quel coglione che corre sul Lungotevere con un’improbabile mise azzurrina sia proprio io, se lo potrebbe togliere subito. Tant’è: dopo due mesi di pseudo allenamenti ho superato la soglia del pudore e riesco a correre (piano) per dodici Km senza fermarmi a causa delle fitte lancinanti alla milza. Direi che sono pronto.Ed eccoci qua, sull’aereo per Strasburgo, noi quattro (Stefano, Michele, Carlo e io) dietro in economy che scherziamo, come fossimo in gita scolastica, perché Enrico l’hanno messo davanti in un posto più largo con l’hostess, pure bella, che ha occhi solo per lui. Mi alzo e lo raggiungo. “Hai rimorchiato?” faccio cenno alla hostess “Sei proprio un deficiente” mi risponde Enrico sorridendo e indicando i figli che sono seduti qualche fila davanti a lui. “Senti, però, io ti devo chiedere una cosa: perché hai scelto proprio me? Voglio dire non è che noi siamo mai stati così...” “Amici?” conclude lui la frase e io annuisco “infatti non dovevi essere tu, ma il quarto della squadra ha pensato di cadere dal motorino e rompersi una gamba. Allora Stefano ha insistito che tu eri la persona giusta” “Tutto qui?” “E che volevi che facessi? Un concorso per titoli e colloquio?” “No. Anche perché non avrei avuto speranze. Comunque sappi che non ti deluderò: sarò come Bergomi dell’82” scherzo. “Che vuol dire?” “Lascia perdere, manco i fondamentali” e mi giro per tornare a sedermi con la mia squadra. “Andrea – Enrico mi richiama – quando ti capita una cosa come la mia, hai due possibilità: o ti incattivisci e rovini pure quel poco di buono che hai combinato in vita tua o cerchi di essere una persona migliore per quel poco o tanto che ti rimane. Io ci provo, almeno finchè ce la faccio fisicamente”. Il giorno seguente siamo ai blocchi di partenza. Oggi c’è il sole, ma la settimana scorsa ha piovuto ininterrottamente e, quindi, gli organizzatori, siccome il campo di gara era impraticabile, hanno deciso di spostare la corsa al centro di Strasburgo, che è bellissimo, ma è anche un dedalo di viuzze, sali scendi, scalette e ponti sui quali far passare la joelette sarà difficilissimo. Mi guardo intorno e mi sembrano tutti più atletici di me (sai che ci vuole). Speriamo di sopravvivere. Si parte, corriamo tra due ali di gente curiosa che ci applaude. È fico, devo ammetterlo. Francesi e tedeschi vanno subito in testa, d’altronde questa città è loro: se la sono combattuta per secoli. Ma, a sorpresa, anche noi ce la caviamo bene: siamo terzi, a notevole distanza dai primi due, ma terzi. Inseguiti dalla squadra olandese: mi giro per capire la distanza, sono ad un’incollatura. Sembrano determinatissimi. “Guarda avanti e corri” ordina Enrico. Obbedisco. Poco dopo metà della gara, alla Petite France, mi vengono i crampi. Non posso fermarmi, ma ho un dolore pazzesco. “Ragazzi non ce la faccio” urlo. “Daje, corri e zitto” risponde Stefano. Non so come, ma obbedisco di nuovo e il dolore diminuisce (potere della mente?). A cinquecento metri dal traguardo siamo ancora davanti agli olandesi che non mollano. C’è un piccolo ponticello: tre scalini da salire, ottanta metri e tre da scendere, poi si gira e si imbocca il rettilineo finale con arrivo davanti alla cattedrale. Possiamo farcela. Saliamo i tre gradini, corriamo con le ultime forze per non farci superare. Poi scendiamo. Qui avviene il fattaccio: scivolo sull’ultimo gradino e cado. Per poco non faccio ribaltare Enrico che riesce a mantenersi in equilibrio grazie a Michele, il mio opposto, che tira dalla sua parte la joelette con una prontezza incredibile. Gli olandesi, impietosi e stronzi, ci superano, approfittando dell’incidente. Uno mi sembra addirittura che sorrida beffardo. Ricominciamo a correre. Rettilineo finale. Gli orange sono duecento metri avanti, non li riprendiamo più: loro terzi, noi quarti. Arrivati, appoggiamo la carrozzina, mi sgancio e faccio qualche metro prima di crollare a terra, quasi svenuto. Il cuore batte all’impazzata in gola, per un momento penso di morire. Poi un tizio dell’organizzazione mi spruzza dell’acqua addosso. Apro gli occhi e vorrei mandarlo a …, ma quello mi allunga una bottiglietta d’acqua, sorridendo. Allora mi metto a sedere e bevo. Di fronte a me la facciata della cattedrale, meravigliosa. Cerco con gli occhi Enrico che è rimasto pochi metri dietro. A fatica mi alzo. Mi fa malissimo la caviglia destra che mi sono storto cadendo. Lo raggiungo zoppicando. “Scusami Enrico, sono scivolato. Dovevo star più attento” “Andrè, non me ne frega niente. Io oggi ho vinto” E in quel momento arrivano i suoi figli e l’abbracciano ricoprendolo con una bandiera dell’Italia come alle Olimpiadi.All’aeroporto di Strasburgo compro una cassetta di riesling alsaziano che altro che la pipì der gatto de Monte Mario. Uscito claudicante dal negozio, trovo la mia squadra, schierata ad aspettarmi. Hanno comprato cinque medaglie di legno. Mi avvicino. Enrico mi mette la mia al collo. “Ragazzi mancò solo la fortuna – commenta Enrico – l’anno prossimo ci riproviamo… speriamo!”. Quella speranza ci commuove, mi volto per non farglielo vedere. Arrivo a casa a notte fonda. Marco dorme. Ho ancora la medaglia di legno al collo. Accendo la luce del salotto. Sulla libreria c’è una foto: siamo io e mio figlio bambino, che ci abbracciamo sulla spiaggia, dopo un gol. Saranno passati almeno quindici anni. La falsa verità delle fotografie. Fermano l’attimo e tu, a distanza di tempo, puoi dargli il significato che vuoi. Adesso il significato di quella foto è uno soltanto. Vado in camera di Marco e gliela lascio sul comodino, insieme alla medaglia di legno, attento a non svegliarlo. Avrei voluto anche scrivergli un biglietto: “cercherò di essere migliore”. Ma è un impegno troppo grande per metterlo per scritto in una vita fatta di giorni che si susseguono uno dopo l’altro, apparentemente tutti uguali, apparentemente insensati. Ma ci proverò e, mentre lo penso, sono sincero. Con i più cordiali saluti, Andrea Armati