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Sembra di sentire Giulio Tremonti. Quando era ministro dell'Economia, e tagliava tagliava, pensò bene di sforbiciare anche i finanziamenti pubblici alla cultura. Tra le altre cose soppresse l'Eti, Ente teatro italiano, che era un fiore all'occhiello della scena internazionale. Zac, via, finito. Oggi è un lontano ricordo.Tremonti, per giustificare queste decisioni in un Paese che aveva sempre investito nella cultura - i tanto oggi vituperati democristiani non badavano giustamente a spese - si dovette inventare una motivazione a metà tra la cronaca e l'ideologia: con la cultura - disse il ministro - non si mangia. E quella frase, che allora scatenò un furioso dibattito, ha però fatto scuola e oggi, davanti alla crisi, è facile sentir sostenere che le priorità sono altre.Addio ManetSembra infatti pensarla così anche Chiara Appendino, la neo sindaca di Torino. Da quando è diventata prima cittadina, gli eventi che avevano caratterizzato il successo della città dal 2000 a oggi, si stanno lentamente sgretolando. Prima il Salone del libro, che senza un'efficace azione di contrasto politico, è di fatto stato scippato da Milano che avrà una manifestazione simile, ma molto più forte. Poi le grandi mostre: non solo Manet passerà sempre al capoluogo lombardo, pronto a prendersi quanto Appendino lascia, ma nei giorni scorsi ci sono state anche le dimissioni della presidente della Fondazione musei, Patrizia Asproni. Lo ha fatto, esplicitandolo con un'intervista al Corriere, per due ragioni: non è mai stata ricevuta dalla sindaca nonostante le richieste; non condivide la nuova strada scelta dalla prima cittadina. Asproni, che in questi anni ha fatto numeri da capogiro, è probabilmente invisa alla nuova amministrazione. Scelta peraltro legittima, ma perché non dirlo direttamente, perché evitare qualsiasi contatto? Ma soprattutto per costruire quale alternativa? Sulla stessa barca stanno altre manifestazioni torinesi, come il festival di jazz, oppure luoghi ormai simbolo del rilancio del capoluogo come il Museo del cinema o quello Egizio.Post operaiaLa città in questi anni ha vissuto una rinascita fondata anche sulle Olimpiadi invernali del 2006: rinascita che ha voluto dire indotto, tessuto culturale, una nuova idea di città. In questi anni la realtà post operaia ha lasciato alle spalle la tradizione di fabbrica, ripensando i luoghi e le attività, fuori da quella storia caratterizzata dal dominio anche culturale della Fiat.Eppure Appendino ha vinto le elezioni. Cosa ha prevalso? Nello scontro tra alto e basso, tra élite e popolo, ha vinto la rabbia, l'insoddisfazione, la sensazione di essere tagliati fuori da una realtà che appare edulcorata. Solo così si spiega il fatto che tutti dicano che Piero Fassino abbia governato bene, ma questo non sia bastato.Appendino sostiene di non voler più finanziare la cultura dei grandi eventi. Vuol investire sul piccolo, su ciò che non si vede ed è legato al territorio. Ma davvero farà questo sforzo? E poi perché mettere in contrapposizione il piccolo e il grande, l'evento internazionale e la valorizzazione delle esperienze locali? Quando il modello funziona, funziona per tutti. Si pensi solo alla storia del grande cinema italiano: la commedia all'italiana trainava il cinema d'autore, e viceversa.Nessun filtroAppendino vuol fare piazza pulita del passato. Lo fa perché vuol imporre un suo timbro, ma per andare dove? Il rischio è che un sistema che funzionava venga impoverito in nome di un populismo che abbassa le aspettative delle persone. Invece la fucina culturale, quanto più è ambiziosa e articolata, più rende anche in termini sociali: è palestra di diritti, di rispetto dell'altro, di idee e di cambiamenti. I cinque stelle è come se volessero azzerare questa complessità. L'idea di fondo è un rapporto diretto, non con la testa, ma con la pancia delle persone. La cultura sarebbe come un filtro fastidioso che impedirebbe la presa diretta tra eletti ed elettori. Ma non è così che si ripristina il valore della democrazia e della rappresentanza: è nella complessità, nella diversità che vive meglio la possibilità di partecipare.Nel decennio appena trascorso si era imposta la cultura del red carpet, la cultura dei grandi eventi voluta da Walter Veltroni, che poi ha fatto scuola. Quel modello era in parte sbagliato: centralizzava le risorse nelle mani di pochi, impoverendo le periferie. Ma oggi è una pessima idea rinunciare alla cultura come veicolo di nuove economie e di idee nuove. Vale per Torino, come Roma. In Italia abbiamo un bene preziosissimo: un patrimonio culturale senza fine. Non è una buona idea decidere di smettere di valorizzarlo e di abbassare le attese.No. Non è questa la strada. Soprattutto non è questa la strada per riattivare i processi democratici. Appendino fa bene a voler dare spazio anche ad altre esperienze, ma è segno di cecità buttare all'aria quanto costruito in questi anni.