(Dall’archivio del Dubbio, 31 marzo 2019)

Tra pochi giorni, il 7 aprile, saranno quarant'anni tondi da una delle date più nere nella storia della giustizia italiana. Iniziò quel giorno, con 21 mandati di arresto spiccati dal pm di Padova Pietro Calogero, una vicenda processuale nella quale sarebbero state ridotte a carne da macello le garanzie minime senza le quali è impossibile parlare di uno Stato di diritto.

Un'odissea che andrebbe definita surreale, se non fosse stata invece drammatica e a volte tragica, nella quale articoli e saggi vennero considerati prove a carico. Una pagina scura nella quale un partito politico, il Pci, si occupò in prima persona di trovare i ' testi' e indicarli alla Procura. Un percorso kafkiano che comportò nel corso degli anni numerosi cambi dei reati contestati, senza che però la sostituzione facesse decadere le fattispecie dimostratesi nel frattempo inconsistenti, al solo fine di prolungare per anni la carcerazione preventiva degli imputati. Un'offensiva politica mascherata da inchiesta giudiziaria nella quale la grande stampa, con appena un paio di rilevanti eccezioni, scelse non di cercare e raccontare la verità ma, al contrario, di difendere un teorema puntualmente smentito dai fatti in nome di una esigenza, la “lotta al terrorismo”, considerata prioritaria rispetto alla verità e alla deontologia professionale.

Nel mirino c'erano alcuni tra i principali teorici e dirigenti dell'area detta allora dell'Autonomia, da Toni Negri, il pesce più grosso, a Franco Piperno, da Oreste Scalzone alla redazione del periodico Metropoli, il cui primo numero era uscito nella stessa primavera del '79. Sullo sfondo una scelta strategica assunta dal pool di magistrati che si occupavano della lotta armata, riassunta nella formula “togliere l'acqua intorno al pesce”: significava colpire l'area limitrofa alle organizzazioni armata, quella sospettata di coprire e fiancheggiare anche senza partecipazione diretta.

Il caso 7 aprile è un labirinto: ricostruirlo puntualmente significherebbe cimentarsi in un'impresa titanica. Furono coinvolte, dopo quella di Padova, diverse Pocure, in particolare quelle di Roma e Milano. Agli arresti del 7 aprile si aggiunsero quelli del 21 dicembre 1979, una cinquantina e passa di mandati, in seguito al pentimento di Carlo Fioroni, ex militante di Potere operaio e poi dei Gap fondati da Giangiacomo Feltrinelli, in carcere dal 1975 per il sequestro e l'uccisione dell'amico Carlo Saronio, e poi una terza ondata nella primavera dell'80. C

onfluirono nel caso una quantità di inchieste tra loro molto diverse, senza arrivare mai a una vera unificazione anche se essenzialmente il processone fu diviso in due tronconi, quello romano e quello padovano. L'uso disinvolto della sostituzione a più riprese dei reati contestati contribuisce a propria volta a rendere arduo districarsi nella vicenda. In concreto, l'ipotesi accusatoria da cui partiva Pietro Calogero era un modello di ' dietrologia' fondata sul nulla. Il magistrato si era convinto che Potere operaio, forse il gruppo della sinistra extraparlamentare più radicale e favorevole all'uso della violenza tra il 1969 e il 1973, quando si era sciolto al congresso di Rosolina, non avesse mai davvero chiuso i battenti.

Si era tratto di un finto scioglimento, una messa in scena che permetteva ai dirigenti di quella organizzazione di costituire una “cupola” che dirigeva sia le organizzazioni armate, in particolare le Brigate Rosse, sia l'Autonomia, due facce della stessa medaglia. La galassia della sinistra estrema, apparentemente divisa in un'area che agiva alla luce del sole, l'Autonomia, e un'altra clandestina, le organizzazioni armate, ciascuna delle quali composta a propria volta da gruppi apparentemente distinti, rappresentava invece una realtà unica e monolitica, diretta nell'ombra dagli ex leader di Po. Un simile impianto, i cui tratti ricordavano da vicino il delirio paranoico, non era supportato da nessun elemento concreto ma solo dall'attento studio dei documenti prodotti da quell'area da parte del magistrato padovano e dalle testimonianze raccolte grazie all'attivo interessamento del Pci, nessuna delle quali aveva però vero valore probatorio.

Su questa base furono spiccati il 7 aprile, tra gli altri, i mandati contro Negri, contro il direttore di Radio Sherwood, emittente dell'Autonomia padovana, Emilio Vesce, contro gli ex leader di Pot op Oreste Scalzone, Franco Piperno e Lanfranco Pace, ma gli ultimi due sfuggirono all'arresto riparando in Francia, ma anche contro il giornalista di Repubblica Pino Nicotri. Lo stesso 7 aprile si aggiunse a quella di Padova la Pocura di Roma, diretta allora da Achille Gallucci. Negri fu accusato di aver organizzato e realizzato il sequestro Moro, e fu indicato anche come “telefonista” delle Br durante i 55 giorni, accusa che ricadde peraltro anche su Nicotri. La stampa si schierò subito e senza un attimo di esitazione. Nessun dubbio, nessuna ricerca approfondita.

Negri era “il rapitore di Moro” e anche quando la montatura crollò, nel giro di pochi mesi, non fece una piega. Quando Nicotri fu scarcerato, dopo 90 giorni, trovò di fronte al carcere una macchina del giornale che lo portò da Scalfari. Il direttore chiedeva di non difendere gli altri imputati e di non ' delegittimare' l'inchiesta. Non fu accontentato. Nel panorama della stampa italiana solo Rossana Rossanda e Giorgio Bocca dissero quel che molti inuitvano, e cioè che il processo era una montatura L'accusa fantasmagorica contro Negri si rivelò presto inconsistente ma le deposizioni di Fioroni permisero di mettere altra legna al fuoco. Br o non Br, Negri e gli altri imputati erano colpevoli di “insurrezione armata”, più varie ed eventuali tra le quali un pacchetto di omicidi.

Il caso 7 aprile si prolungò per anni. Squassò la procura di Padova con uno scontro violentissimo tra il procuratore Calogero e il giudice istruttore Giovanni Palombarini, convinto a ragione che non fosse possibile ' ricondurre a un'unica generale realtà associativa' il fenomeno dei gruppi armati e delle strutture dell'Autonomia. Calogero reagì accusando il collega di sabotare o quasi l'inchiesta. L'Unità gli diede ragione. Il caso irruppe in Parlamento nel 1983. Negri, già in carcere da quattro anni in attesa di giudizio, fu candidato dal partito radicale ed eletto. La Camera si riunì, caso unico nella storia, a ferragosto per votare l'autorizzazione all'arresto. Nel Pci qualcosa era cambiato: decise di astenersi sino alla condanna in primo grado. La Federazione di Padova protestò indignata. L'autorizzazione passò comunque ma Negri, nonostante gli impegni assunti con Pannella aveva scelto di fuggire e raggiungere la Francia.

In aula la montatura fu smantellata: nessuna condanna per insurrezione armata, nessuna conferma del ruolo occulto che nel terrorismo avrebbe svolto Potere operaio, a cui si negava la qualifica di banda armata, negazione assoluta della tesi portante della procura di Padova, quella sull'unicità dell'organizzazione sovversiva armata e autonoma. Le condanne in primo grado furono pesantissime, quelle del 1986 in appello, poi confermate dalla Cassazione nel 1988, molto meno. Pace, Piperno e Scalzone furono condannati solo per associazione sovversiva. Per Negri si aggiunsero le condanna per partecipazione a banda armata e concorso morale in rapina.

Molti altri imputati, tra cui i redattori di Metropoli Paolo Virno e Lucio Castellano, furono assolti. Tutti avevano scontato lunghi periodi in prigione. Rispetto alle accuse originarie, le condanne erano robetta, e destavano il sospetto che servissero soprattutto a giustificare almeno in minima misura gli arresti e la lunghissima carcerazione preventiva. In questi casi si suole dire che si tratta di “un'esperienza da dimenticare”. È precisamente quel che è successo. Lo scandalo del processo 7 aprile è stato semplicemente dimenticato.

Nessuno ha mai rinfacciato quell'aberrazione giudiziaria ai magistrati che la edificarono con lo spago, i quali al contrario rivendicano a tutt'oggi con non ingiustificato e incomprensibile orgoglio. Il collega di Nicotri che aveva scritto “l'ergastolo non glielo toglie nessuno perché una perizia fonica dimostra senza possibilità di dubbio che la voce del telefonista delle Br era la sua”, si ritrovò anni dopo nella stessa redazione del mancato “telefonista”. Nonostante la perizia della quale aveva scritto non fosse mai esistita non si sentì neppure in obbligo di presentare le scuse.

Il 7 aprile è stato dimenticato perché a tutt'oggi è opinione comune che in nome della “lotta al terrorismo” tutto fosse giustificato e su tutto la stampa democratica dovesse chiudere gli occhi per “fare la propria parte”. Ma quel prolungato silenzio, la scelta consapevole di fare finta di niente, ha reclamato un prezzo persino superiore a quella dello scandaloso caso 7 aprile in sé. Allora, per la prima volta, la magistratura si sostituì alla politica e scelse di aggirare, se non ignorare, limiti e garanzie in nome di un’esigenza superiore. Quel sentiero pericoloso avrebbe potuto chiudersi “a guerra finita”. Invece, di emergenza in emergenza, si è allargato sempre di più.