L’inganno. L’avrà meditato con cura Alessandro Barbano il titolo del suo libro. Perché il sottotitolo “Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene” è di per sé un j’accuse spietato, una scudisciata che dilania le carni molli, quasi frollate, di una pubblica opinione che volge lo sguardo distratto verso la lotta alla mafia come fosse una cosa altrui, una battaglia necessaria con i suoi morti più o meno innocenti, con i suoi danni più o meno collaterali. Ma che ci vuol fare? la guerra è la guerra e da che mondo e mondo è cosa da cui stare alla larga e lasciare in mano ai professionisti. Loro sì che hanno diritto di chiedere carta bianca, perché loro sanno ciò che noi poveri mortali solo intravediamo, come le ombre della caverna di Platone.

Non c’è neppure la curiosità di guardare in faccia i nemici, di percepirne le fattezze, di coglierne le posture. Chi volete che siano in fondo? Tanti piccoli Totò Riina o Bernardo Provenzano, tanti piccoli don Vito Corleone o tanti piccoli Gennaro Savastano in un pantheon meticcio in cui non si distingue più la verità dalla rappresentazione, la vita dalle serie televisive, la storia dalla mitologia. Eppure pur tra tanta distrazione, pur remando in una palude di luoghi comuni, Alessandro Barbano non rinuncia al compito di squadernare la trama dell’Inganno che ha visto e che vede consumarsi ogni giorno in nome di una certa antimafia militante.

Non è un libro nero che vuol tenere la contabilità dei troppi errori e dei molti misfatti che si sono consumati in nome della lotta alla mafia in questo Paese. Né punta direttamente l’indice sulle carriere, sui benefici, sulle rendite, sulle risorse pubbliche e private che sono state, tante volte, saccheggiate a beneficio di opache strutture e di carrozzoni burocratici. Certo il libro ne parla, eccome se ne parla, con tanto di nomi e cognomi dei membri di un girone di Intoccabili che mai avrebbero pensato di vedersi contestate le proprie mirabili gesta con tanta maestria letteraria e precisione cronachistica. Ma quella di Barbano non è una denuncia di parte o la sterile contestazione partigiana mossa nell’interesse di un ambiente ostile o peggio colluso; è piuttosto il rimpianto e il rammarico di chi mettendo in fila fatti, processi, assoluzioni e fallimenti si duole dello sfilacciamento delle regole democratiche, dei vizi della gogna mediatica, della crisi permanente della presunzione d’innocenza, della creazione di enclave di impunità che resistono a ogni disastro investigativo.

Da questa traiettoria è un libro che rimanda, sin dalle prime battute, all’etica repubblicana, alla necessità che a nessuno si consegnino poteri eccezionali e discrezionalità avulse da ogni limite con il rischio inevitabile che vadano fuori controllo e generino distorsioni, ingiustizie, vantaggi indebiti. Rispetto alla bibliografia apologetica di questi ultimi due decenni, intrisa di autocompiacimento, allarmismi grotteschi ( come dimenticare le denunciate collusioni tra ’ ndrangheta e Isis di cui si è persa ogni traccia), invocazioni alla jihad planetaria alle mafie, l’Inganno si limita alla fredda contabilità, alla documentata cura di quanto di falso vi sia in molte prese di posizioni, in documenti ufficiali, in report e resoconti.

Un vecchio e bravo caporedattore una volta fece pubblicare un articolo in cui si parlava di una riunione di ’ndrangheta svoltasi in pieno Aspromonte poco tempo prima; al giovane investigatore che gli chiese da dove fosse venuta fuori quella notizia che aveva suscitato tanto scalpore, il buon giornalista rispose che fino a quando la mafia non si fosse dotata di un proprio ufficio stampa per smentire si poteva pubblicare di tutto. Scherzava, ovvio, ma qualcuno deve aver mandato a memoria la lezione fidando sul fatto che le cosche non smentiscono e che la gente poco ne sa e poco gliene importa di progetti planetari, di complotti e colpi di Stato, di colonie mafiose e via seguitando. L’Inganno vuole vederci chiaro, non per smentire, ma per capire. Per com- prendere cosa ci sia di vero e quanto invece sia costruito, millantato, suggestionato, enfatizzato per consentire la sopravvivenza di carriere e apparati provvisti, loro sì, di coreuti e supporter nelle redazioni di giornali e tv.

È un affondo crudele, un bisturi affilato, ma che consegna un importante risultato al lettore: gli consente di capire chi e cosa debba essere conservato e gelosamente custodito nel contrasto antimafia e quanto meriti di finire nella pattumiera della democrazia. E, soprattutto, punta lo sguardo verso lo statuto delle regole eccezionali - che costituisce la cifra giuridica dell’antimafia italiana – per sapere se sia esistita o meno e sopratutto se ancora sia vera quell’emergenza nel cui nome la democrazia delle regole rischia di trasformarsi un un’oligarchia del sospetto.