In un suo saggio del 1972 che racconta la storia della mafia, Leonardo Sciascia racconta che questa parola - mafia, appunto - appare nel primo vocabolario siciliano compilato nel 1868 da Antonino Traina: si ipotizza che addirittura sia stata importata dal Piemonte, «sulle ali della spedizione dei Mille di Garibaldi». Tuttavia, spiega lo scrittore, per lo studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè «mafia» è solo «una ipertrofia» dell'ego ribellista. Poi, con Giuseppe Rizzotto, autore nel 1862 de «I mafiosi di la Vicaria» (una prigione di Palermo) la mafia diventa «associazione». Ma, annota Sciascia, sarà un procuratore, Alessandro Mirabile, a parlarne come di «setta» nelle sue requisitorie.Sottolinea Sciascia: «Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa si tenda a creare un pregiudizio. È ingiusto, affermano costoro, che a Milano una banda di rapinatori sia una semplice banda, mentre in Sicilia diventa cosca». Sciascia, su questo, è netto: «La parola mafia è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa? questa distinzione già vien fuori nel 1838 da una relazione di don Pietro Ulloa, allora procuratore generale a Trapani». Ulloa, fin da allora, parla di «oscure fratellanze», «sette segrete che diconsi partiti», un popolo che«le fiancheggia, magistrati che le proteggono?al centro di tale dissoluzione c'è una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo al secolo XIX». Commenta Sciascia: «Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare antimafia, una relazione acuta e spregiudicata come questa di don Pietro Ulloa? ».Dubbio, considerazione, che vale non solo per le commissioni parlamentari, ma anche per il tanto che si dice (e si scrive)  generalmente di mafia. Non si vuole dire, con questo, che se ne parla (e se ne scrive) troppo; sicuramente però se ne parla (e se ne scrive), spesso a sproposito. Alcuni lo fanno, e lo hanno fatto, con buona, sprovveduta, intenzione (e pazienza, anche se la loro indubbia buona fede comunque un certo danno lo procura); altri si costruiscono una carriera, cementano posizioni di potere, tutelano interessi molto concreti, di "roba" (e come aveva ragione Leonardo Sciascia, in quel suo famoso articolo sul Corriere della Sera redazionalmente titolato "I professionisti dell'antimafia": la quotidiana cronaca ce lo ricorda).Per fortuna c'è anche qualcosa di buono in quello che si scrive e si dice. Più che "buono" (anzi decisamente prezioso, utile nel senso più pieno ed estensivo del termine) è, per esempio, un libro scritto più di cinquant'anni fa: "Questa mafia", scritto da un carabiniere, l'allora comandante dei carabinieri di Agrigento Renato Candida: uno che la mafia, la "Cosa Nostra" la respira, e vive tutti i giorni; e la capisce, la penetra. È un libro "secco", asciutto, un saggio che non è solo un saggio, pagine di un "diario" che però raccolgono anche una formidabile "appendice" costituita da documenti e relazioni?un libro che attira l'attenzione di un giovane ma già vigile Sciascia, noto (anche a Candida) per aver pubblicato "Le parrocchie di Regalpetra", per il suo lavoro editoriale, per gli articoli scritti con piglio radicale sul milanese Giorno: dove racconta le ancora sconosciute realtà di Misilmeri, Niscemi, Canicattì, Villalba. Magistrale l'intervista con Giuseppe Genco Russo, il capomafia di Mussomeli, pubblicata su Mondo nuovo? Sciascia scrive a proposito di Questa mafia una recensione con toni di entusiasmo; e ne nasce un'amicizia che dura nel tempo. Candida diventa poi il modello di carabiniere a cui Sciascia si ispira per il suo capitano Bellodi, protagonista de "Il giorno della civetta".Pubblicato il libro, Candida ne riceve, qualche tempo dopo, il meritato "ringraziamento": sotto forma di trasferimento, alla scuola allievi ufficiali di Torino. Promosso, e rimosso. Si può dire, con il senno di oggi, che gli sia andata perfino bene. In quegli anni così s'usava, nei confronti di chi troppi piedi pestava, e troppo forte. Col tempo altre, più drastiche e sanguinose misure saranno prese: prima la "chiacchiera"; poi il rimprovero d'essere "chiacchierato". Infine la mortale carica di tritolo o la raffica di kalashnikov.La Cosa Nostra certo ha enormemente mutato i suoi connotati, da quegli anni ormai lontani; è ormai altro, da quello che hanno scritto Candida e Sciascia. Non solo è salita molto a Nord, la mafiosa palma; è diventata una ormai inestricabile foresta; e tanto più insinuante e pericolosa in quanto silenziosa, discreta. Non se ne parla più, non si mostra più. Segno, evidentemente, che non ha più bisogno di parlare, di mostrarsi. Fino a qualche settimana fa per entrare in possesso di una copia di Questa mafia, la cui tiratura da tempo risultava esaurita, bisognava confidare nella pazienza e nel portafoglio: il libro era reperibile nel circuito delle librerie antiquarie e a buon prezzo (per l'antiquario, s'intende); oppure si doveva confidare nel raro colpo di fortuna che può capitare a chi fruga nelle bancarelle dell'usato, dove tra tanta paccottaglia capita di trovare qualche "perla".  Ma ora il libro è stato meritoriamente ripubblicato e dunque entrarne in possesso è più facile. Ne abbiamo un documento non di stretta attualità, ma neanche un "solo" documento di storia: è un testo che ci fa conoscere fatti di 'ieri', ma fondamentale per comprendere quelli di "oggi". L'amicizia che lega Candida a Sciascia (e Sciascia a Candida, ovviamente), è ben descritta in un articolo pubblicato, in origine, su La Stampa dell'11 novembre 1988, e poi compreso nella raccolta "A futura memoria" (Bompiani).  Scrive, Sciascia: «Ci siamo conosciuti nell'estate del 1956. Io avevo da qualche mese pubblicato "Le parrocchie di Regalpetra". Candida lo aveva letto, mandò a dirmi che desiderava che ci incontrassimo. Ci incontrammo a casa mia, a Racalmuto: un uomo simpatico, aperto, spiritoso. E debbo anche dirlo, e sarà magari perché ne conoscevo pochi: ma era il primo funzionario dello stato veramente antifascista che io avessi incontrato. La sua radice di avversione alla mafia era appunto questa: il suo antifascismo?Diventammo amici. Ci incontravamo spessissimo, almeno due volte per settimana, in paese o nella mia casa di campagna; e ad Agrigento, nel suo ufficio. Stava scrivendo il suo libro sulla mafia. Quando lo ebbe finito, lo portai a Caltanissetta, dall'amico editore Salvatore Sciascia: che subito, senza alcuna esitazione, lo pubblicò. Qualcuno osò poi dire che io, sollecitato dal mio amico Luigi Cortese, capogruppo comunista all'assemblea regionale, avevo chiesto a Candida di tagliare quelle parti del libro che prospettavano collusione tra comunisti e mafiosi: nulla di più falso; e del resto, nel libro, qualche elemento in questo senso si trova. Non erano i comunisti, che preoccupavano Candida in quanto comandante del gruppo carabinieri di Agrigento, ma i democristiani.E tentò, proprio tra i giovani democristiani, di seminare coscienza antimafiosa?». Ecco: direi che questo brano chiarisce bene la qualità dell'amicizia tra lo scrittore e il carabiniere; di che pasta sono fatti l'uno e l'altro. Ma c'è molto altro, in quel bell'articolo di Sciascia, che "descrive" che tipo di carabiniere e di uomo sia stato Candida, di come l'Arma debba essere orgogliosa di averlo avuto tra i suoi "fedeli", e di come, fino a quando in questo paese ci saranno persone come Candida, si possa ancora sperare i qualcosa di buono. Questa mafia è ricca di preziose informazioni, di radicale impegno, impegnato radicalmente, si potrebbe dire; racconta la divisione tra giovani e vecchi mafiosi, il desiderio di affermazione dei primi, la preoccupazione dei secondi di non pregiudicare gli equilibri e le posizioni raggiunte, e il dissidio che inevitabilmente ne nasce e che porta all'altrettanto inevitabile guerra. Sciascia ne scrive su Tempo Presente, la bella rivista di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte (siamo, giova ricordarlo, nei primi anni Sessanta): «?Di una mafia di sinistra (avendo finora i partiti di sinistra monopolizzato i termini della lotta contro la mafia), nessuno prima del Candida aveva parlato; eppure esiste, e in molti centri dell'agrigentino riesce a battere sistematicamente la mafia di centro-destra. Ciò non toglie che l'essenza della mafia risieda in quell'ideale di ordine di cui si è detto. Peraltro, è da notare che la scelta di un partito in Sicilia è determinata da circostanza che niente hanno a che fare con un ideale politico: rivalità di gruppi, di famiglie o semplicemente di individui; gelosie e invidie?Ho davanti agli occhi un opuscolo sulla vita del sindacalista Salvatore Carnevale, indubbiamente liquidato per sentenza della mafia; a un certo punto si legge che col Carnevale le vittime della mafia, sindacalisti ed esponenti della sinistra, sono finora trentotto; e viene il sospetto che si faccia un po' di confusione. Perché bisogna distinguere tra delitti esterni e delitti interni; e se tra questi trentotto non ci siano soppressi per misura interna e per ragioni che non hanno niente a che vedere con la politica. Ma tant'è: un morto serve sempre, nel nostro retorico paese». E ancora: «?leggendolo gli è avvenuto di dare "quella definizione della mafia che ha avut un certo corso e che credo resti ancora accettabile: la mafia è un'associazione per delinquere con fini di illecito arricchimento dei propri associati e che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato. Definizione che ognuno da questo libro può trarre o su questo libro verificare». Ben si capisce, ora, perché Sciascia nei suoi libri, quando  immagina il personaggio di un investigatore, di una persona che cerca la verità, puntualmente ne modella il ritratto di Candida, quello che è stato, è riuscito ad essere."Questa mafia", di Renato Candida, Salvatore Sciascia editore Pagg. 214, euro 22