Riportiamo di seguito, per gentile concessione dell’autrice e dell’editore, un estratto de “La città ideale”, saggio appena pubblicato per Divergenze dalla professoressa Daniela Piana, ordinaria di Scienza politica all’Università di Bologna.

La forza indeterminata, e incerta negli esiti, dei fenomeni di protesta in Paesi come l’Iran permette agli studiosi di ragionare sulla sostanza qualitativa dei fatti sociali. «Come spiegare quanto accade?» è la domanda più ricorrente fra studiosi e ricercatori. Quali strumenti è necessario approntare affinché la tutela dei diritti fondamentali non sia più un’aspirazione, ma una realtà? Quattro decenni di politiche di promozione dello sviluppo, unite a quelle dello Stato di diritto, sono stati contrassegnati dall’accento posto sull’expertise- driven governance delle strategie. Oggi vi è un innesto supplementare che può fare la differenza: la conoscenza dei diritti che hanno i loro titolari, le persone. Da qui, la potenzialità dell’idea di progettare la formazione e le metodologie di erogazione dei servizi educativi insieme ai loro beneficiari: le nuove generazioni. Quell’idea, da tempo esplorata nella letteratura sulla progettazione partecipativa, è stata riconosciuta come una priorità di metodo dall’Unesco e suggellata da un endorsement politico nell’assemblea generale dell’Onu. Per quanto i decenni che hanno chiuso il XX secolo siano stati caratterizzati da un’enfasi condivisa sui temi delle diseguaglianze, la questione delle libertà e del connubio necessario fra libertà e pluralità delle voci e delle culture, è tornata all’attenzione di policy makers, apparati mediatici e cittadini.

Di certo l’esperienza pandemica ha contribuito, ma per la prima volta, almeno con questo grado di urgenza e coinvolgimento, le Nazioni Unite, riunite a settembre 2022 nell’Assemblea generale, hanno fatto della tematica dell’istruzione e della formazione un pilastro del paradigma di pensiero entro il quale iscrivere le politiche adottate dai governi per gli obiettivi dell’Agenda 2030. Non si tratta soltanto di ragionare d’effettiva eguaglianza d’accesso all’istruzione, come vorrebbe il punto 4 dell’Agenda: il proposito è più profondo e impegnativo. Sotteso dalla ipotesi secondo cui la conoscenza – lei sola – è in grado di assicurare agli uomini la fruizione delle forme di miglioramento della qualità della vita, tale punto mira a tutelare i diritti in una società dove l’alterità è riconosciuta e rispettata in ogni proprio aspetto: linguistico, religioso, culturale e di genere. Dunque la formazione è la strada da percorrere partendo da un concetto euristico: i diritti sono sogni, speranze, possibilità immaginate prima di essere scritte, ambìte prima che ottenute. I diritti sono fatti della materia impalpabile di ciò che potrebbe essere, ma non va dato per scontato. Sono fragili per intrinseca natura e si possono ottenere, vedere riconosciuti, ma se il percorso per arrivare al godimento è fitto di ostacoli, conflitti, incertezze, discriminazioni, rimangono nel regno della fantasia. Perché la garanzia e la centralità della persona divengano autentiche prima che potenziali, occorre saperli, i propri diritti, comprendere i loro strumenti e come chiederne la salvaguardia. In pratica, una strategia che faccia del Sapere un mezzo per rivitalizzare il contratto sociale per le generazioni future. In quello “spazio d’impegno” il catalizzatore deve essere la fiducia. Una realtà più o meno grande capace di realizzare quelle condizioni può dotare la collettività d’una bussola che la orienti nell’avvenire, prendendo sul serio ciò che si dice oggi.

Il presente, d’altronde, è già eredità dei bambini. Non è un esercizio di indicatori che si auspica: ne abbiamo molti, fin troppi. Nelle strade, sui treni, nelle botteghe

e negli occhi dei giovani, da quando abbiamo tolto le mascherine, lo spazio per l’auto- inganno non c’è più. Sui volti vi è, piuttosto, la convinzione che emozionarsi sia un vizio di cromosoma, una di quelle cose di cui avere una blanda tolleranza. I giovani sentono tutto ciò. Non sanno come era prima delle crisi cominciate nel 2007, ma sanno vedere nelle pieghe del possibile l’opportunità di un cambiamento. E mica solo perché sono usciti da poco dall’età della fantasia illimitata.

Non hanno ancora il metodo, men che meno sono sicuri che se mobiliteranno il fervore e l’entusiasmo in un diverso modo di vivere insieme, di organizzare il lavoro e pensare il welfare, di consumare e fare circolare le risorse, relazionarsi con l’ambiente e le risorse primarie, pochi prenderanno sul serio le loro istanze, per quanto motivate e realizzabili. Purtroppo è una questione sistemica. Regole che cambiano secondo gli umori di chi dovrebbe essere preposto a scriverle con coscienza e umanità, processi decisionali frammentati e supplenza funzionale delle figure che si prodigano laddove la macchina si inceppa, dunque anche mancanza di valorizzazione di ciò che invece funziona. Tant’è, nessun fuoco può accendersi senza una scintilla. È qui che si comprende l’importanza della fiducia. Dovremmo dedicare la festa del 2 giugno ai bimbi, che della fiducia sono i cantori. Appena prima che il mondo si misurasse – male – con l’emergenza pandemica ero all’Unesco e mi hanno raccontato una storia, una bella storia nella quale ci sono dei bambini, i quali vivono nelle favelas di Rio de Janeiro. Non hanno una scuola e sono contornati da individui che non pensano dovrebbero averne una. Di certo, per loro una scuola sarebbe un lusso fuori portata. Un giorno una donna, con il coraggio dell’iniziativa, prende la forza che viene dal sentimento della res publica – cioè tutti noi –, rileva uno spazio abbandonato in gestione e l’affida ai bambini. Un gesto semplice: aprire e affidare. Non è un caso che il verbo affidare abbia la radice etimologica della fiducia. Insieme, bambini e adulti, costruiscono uno spazio ( che è una realtà diversa dalla somma di metri quadrati), uno spazio comune, una struttura cognitiva ed emotiva nella quale un gruppo di adulti insegna ai bambini a scrivere le regole dell’habitat sociale con pochi supporti, quasi immateriali, poiché il supporto più durevole è la mente, e in cambio riceve dai piccoli l’energia per promuovere la vera libertà. Là dentro, e quindi attorno, sono i bambini a occuparsi di conservare gli spazi comuni, a far sì che ciascuno contribuisca al mantenimento della armonia. Scrivono, in sostanza, la Costituzione della loro scuola. Questa storia non è una favola, è vera. In Italia, nel 1946, i cittadini hanno votato a favore della repubblica. Dopo meno di due anni quella forma è stata ancorata a un atto fondativo costituzionale, un atto per tutti coloro che sarebbero venuti. La Repubblica italiana pertanto è un ideale e un’energia che sta negli occhi e potenzialmente fra le mani dei bambini, dei giovani destinati a diventare futuro. Ecco perché la festa della Repubblica dovremmo dedicarla a loro. I mezzi li abbiamo. È giunto il tempo di trovare la volontà.