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Nessuno si immagina in catene, dentro una gabbia. Siamo abituati a pensare la nostra libertà come una condizione irrinunciabile. Ma che succede se la gabbia diventa più accogliente del mondo di fuori? L’ultimo film di Paolo Virzì, Siccità, parla anche di questo. Tra le righe, marginalmente, ma col coraggio di guardare le cose da una prospettiva diversa.
In questo caso il salto è doppio. Si tratta di prendere un paradigma emergenziale che ha avuto luogo realmente per applicarlo all’immaginario distopico di una catastrofe ambientale: irreale sì, ma terribilmente a portata di mano. Ed ecco il primo livello. Il secondo sta nel modo in cui leggere quell’emergenza. Roma Nord non racconterà la stessa storia di Roma Sud. E chi sta in carcere ha poco da raccontare: può stare solo a guardare. Soprattutto quando la capitale si prosciuga fino all’ultima goccia, e da Rebibbia l’apocalisse si guarda attraverso un minuscolo schermo.
«Ma vuoi deciderti a fare questa benedetta richiesta per uscire di qui?», chiede un attivista di Antigone. Dall’altra parte c’è un meraviglioso Silvio Orlando, nei panni del detenuto Antonio, che bofonchia qualcosa: «Ma se non ho neanche un tetto, dove vuoi che me ne vada?». Le cose, poi, vanno a modo loro. Ma resta bene impressa un’immagine: una cella affollata di uomini alle prese con un’invasione di blatte, nuova piaga che infesta l’intera città, mentre uno scienziato spiega come risparmiare un po’ d’acqua in diretta tv. Quegli uomini ridono, che l’acqua non ce l’hanno mai avuta, mentre fuori si piange. Quegli uomini vogliono bene al Silvio Orlando del carcere, e lui se ne sta compiaciuto, nel suo universo di gabbia, perché fuori le mura della sua cella non sa immaginarsi. Dentro è utile, fuori uno scarto. Dentro ha un lavoro e da mangiare, fuori chissà. Allora torna in mente quella storia di un uomo che bussa in piena notte alle porte del carcere implorando le guardie di farlo rientrare. Una storia di tante, dentro un sistema che non prospetta un futuro oltre le sbarre, un modo per rimettere piede tra gli altri.
Se poi si guarda chi sono questi altri, nel film di Virzì, di gabbie ne vediamo di più. C’è la parabola del virologo star, che nel caso è un idrologo. Di quelli che io “ve l’avevo detto”. E i giornalisti pendono dalle sue labbra perché non sanno che pesci prendere. C’è il morbo inspiegabile, un’epidemia tropicale, che avanza vestita da febbre. C’è il medico che ha un’intuizione, però mancano i mezzi. C’è il Tevere come ognuno l’ha sognato almeno una volta, essiccato, con un antico tesoro che riemerge dal fondo. C’è il politico, il tassista, quello che ne approfitta. C’è chi non ci crede. C’è l’imprenditore fallito che fa la guerra dei poveri con un migrante. C’è la cruda realtà, un’umanità dolente e sonnolente, declinata in una lista lunghissima. Di fronte all’assurdo, nel contenitore di una commedia all’italiana.
Certo non torna tutto, nel film di Virzì. Qualcosa è gratuito, qualcosa manca. Ma noi ce ne stiamo davanti allo schermo con la gola riarsa, come se in quello schermo ci fossimo entrati. Un po’ perché quell’emergenza l’abbiamo vissuta, e capiamo che lo schema è destinato a ripetersi all’infinito. Un po’ perché quello schema racconta tutto di noi. Un dramma collettivo non ci fa diventare migliori non è una livella - ci fa solo navigare nello stesso mare. L’uno a nuoto, l’altro con la scialuppa.
Ecco, se domani ci fosse la siccità, in una parte di Roma avremmo le fontane, nell’altra un camion d’acqua e delle buste di plastica. Anche se il Tevere ora è un deserto per tutti. # Romacelafarà, si legge sui muri: ché uno slogan può essere una gabbia crudele, ma sembra accogliente.