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Dieci anni di lavori e finalmente il Centro Pecci per le Arti Contemporanee di Prato domenica ha riaperto al pubblico. La prima mostra, La fine del mondo, curata dal direttore Fabio Cavallucci, racconta lo smarrimento davanti ai cambiamenti, quando una strada è perduta e la nuova non è ancora segnata.Quando alla fine degli anni 80 viene inaugurato il museo, donato alla città dall'industriale Enrico Pecci, non siamo ancora entrati nell'era delle archistar, del boom del real estate, del recupero urbano che da lì a poco segnerà, per l'immaturità dei processi, una delle stagioni più aggressive nel ridisegno della città: i ricchi in centro, gli altri fuori.Il Pecci è un edificio semplice e asciutto in un quartiere di periferia; li vicino le fabbriche riciclano stracci e producono tessuti e confezioni che esportano in tutto il mondo; niente a che vedere con Bilbao che qualche anno più tardi, userà la forza espressiva del Guggenheim per soccorrere una città stremata dalla decadenza economica.Nel 2006 il Centro, mentre comincia a perdere l'incanto iniziale alla fine di un ciclo durato quasi vent'anni, chiude e prepara la rinascita.Sempre quell'anno viene affidato il progetto di ampliamento all'architetto olandese Maurice Nio che con uno spazio curvo, sospeso e d'oro, abbraccia il vecchio edificio fino a farlo scomparire.A differenza del Maxxi (costato 150 milioni di euro, una cifra faraonica per gli standard italiani) e del Macro di Roma (35 milioni) partiti mentre il sole splendeva e conclusi con il mare in tempesta, il Pecci si può dire che è già un museo di guerra. Iniziato ai primi segni della crisi, ha un budget modesto, 14 milioni di euro, che devono bastare per costruire la nuova ala e rimodernare l'edificio originario. «Per rispettare il budget abbiamo dovuto rinunciare a rivestire il soffitto. Dovevamo tagliare. Era l'unico modo per fare il museo» dice l'architetto. «Il museo è come lo avevo immaginato, non nei dettagli, ma nell'idea. C'erano due problemi da risolvere quello dell'entrata, difficile da identificare e quello della circolazione all'interno dell'edificio. Li abbiamo risolti entrambi. La cosa più difficile da difendere è stata l'idea di far entrare la luce naturale nelle sale. Volevo che ci fosse una relazione con l'esterno. Non volevo che questo spazio morbido e curvo sembrasse un bunker».«Nio è operativo, pragmatico» dice l'assessore all'urbanistica del Comune Valerio Barberis, «uno specialista delle infrastrutture. L'estetica arriva dopo. Ma si è battuto perché il museo rimanesse fedele al progetto».Nel 2014 arriva alla direzione del museo Fabio Cavallucci; due anni di lavoro nelle cucine prima di aprire il salotto. Lancia il Forum dell'arte contemporanea italiana e una serie di fortunati incontri sospesi fra le arti e le scienze sociali. Il suo contratto scade il prossimo aprile. Il tempo di un solo ballo, una mostra, quella che domani apre al pubblico, che potrebbe essere l'unica del suo mandato. Una volatilità frequente nei musei italiani che non facilità i rapporti internazionali e i progetti a lungo termine. La fine del mondo dice Cavallucci non è una mostra apocalittica. L'Occidente non è più lo stesso, né nella sua forma fisica né per le idee che l'hanno governata: progresso, il principio di causa effetto. Il nuovo museo è come una navicella spaziale. Guardare da una distanza aiuta a capire cosa veramente vogliamo salvare. La mostra parla del conflitto dentro e fuori di noi, parla dei punti di rottura, delle svolte. Ci sono temi che tornano quasi ossessivamente, l'origine dell'uomo o del cosmo, il rapporto con gli oggetti, il conflitto. abbiamo scelto artisti relativamente noti come Carlos Garaicoa, Thomas Hirschhorn, Cai Guo-Qiang, nomi storici, da Duchamp a Boccioni poi architetti come Didier Fiuza Faustino e Gianni Pettena, tantissimi giovani come il brasiliano Henrique che lo scorso anno ha allestito un grande spazio al Palais de Tokyo, altri che vengono dai paesi islamici, dall'Est europeo, da luoghi controversi, in conflitto.Negli ultimi vent'anni gli architetti hanno costretto gli artisti a misurarsi con spazi sempre più difficili per dimensioni, illuminazione, modi di fruizione. «Bisogna avere rispetto - dice Maurice Nio -, a volte gli artisti trattano lo spazio come uno schiavo, vogliono che diventi neutro. Altre volte sono gli architetti a dire all'artista io sono più importante di te. Non ci possono essere padroni in un processo creativo».Uno dei temi che attraversa ogni conversazione e che si legge nel "paesaggio"interno ed esterno del museo, è il denaro. I conti minuti che progettista e direttore sono stati costretti a fare si sentono; una gestione asciutta ispirata da generazioni di imprenditori manifatturieri e abbracciata dai due maggiori finanziatori, il Comune e la Regione mentre il pil pratese in alcuni settori è salito, nell'ultimo anno, anche sopra il 10%. Come dice il direttore queste istituzioni fanno sforzi importanti. Ma il problema è cambiare la prospettiva. La cultura ha bisogno di denaro, gli investimenti fanno la differenza. Il budget ridotto all'osso necessario alla gestione del Pecci per il prossimo anno è di circa 3 milioni e settecentomila euro. Al momento, manca ancora un milione di euro che dovrà venire dai biglietti, le attività e gli sponsor. Per il direttore «lo sponsor non è il male. L'importante è che ci sia chiarezza. Io combatto contro tutti qui. Sponsorizzare un museo per avere un ritorno di immagine è un fatto ambiguo. Bisogna cambiare il meccanismo, è un dovere sostenere il progresso di una società aiutando le scuole le istituzioni ad educare. Va fatta una rivoluzione culturale. Io credo nelle forme di mecenatismo che arricchiscono tutti».Negli ultimi anni per vitalità e mezzi a disposizione gallerie private, fondazioni fiere hanno superato i musei - ad eccezione della grandi istituzioni contemporanee come il Moma - ai quali spesso si deve la consacrazione di un artista e della sua opera con mostre preparate con anni di studio e di ricerche. La galleria David Zwirner di New York nei quattro giorni di Frieze, una delle fiere d'arte contemporanea più importanti del mondo, ha venduto in quattro giorni opere per oltre di cinque milioni di dollari; la Marlborough Fine Art di Londra ha dichiarato di aver firmato contratti, a due ore dall'opening del suo stand, per oltre un milione di sterline. C'è una sproporzione fra i fenomeni che riguardano l'arte contemporanea e la fatica dei musei che la espongono a sopravvivere. Nio solleva anche un altro tema: «La crisi ha creato una nuova mentalità. Oggi ci viene chiesto, di non correre rischi. Negli anni '90 e 2000 l'olanda sperimentava, noi giovani architetti prendevamo dei rischi, l'errore faceva parte del processo. Ora devi bonificare il progetto dal rischio. Così è difficile crescere. Noi architetti dobbiamo assumerci la responsabilità in prima persona. Io continuo a rischiare e a fare ricerca».