Ma davvero c’è qualcuno che non ha capito Strappare i bordi, la serie Netflix del fumettista Zerocalcare perché recitata in “romano”? E che per questo motivo si è pure incazzato? «È incomprensibile», «Ci vogliono i sottotitoli», «parla strascicato», «va troppo veloce», è la lagna che circola da giorni sui social italiani. «È uno scempio per la logopedia!», ha poi chiosato una ineffabile contessa “Serbelloni Mazzanti Vien dal mare” che nella vita fa la nota giornalista di costume. Uno-sce-mpio-per-la-logo-pe-dia, da sillabare con lentezza, mi raccomando, soprattutto da Firenze in su. Polemiche assurde, che mai nessuno si è sognato di agitare per i film del napoletano Massimo Troisi (magari lo volevano doppiato in bresciano), per i vibranti monologhi del veneto Marco Paolini, per le commedie teatrali del genovese Gilberto Govi, per le canzoni del milanese Enzo Jannacci, e l’elenco potrebbe essere molto più lungo di questo articolo. Quindi, con Zerocalcare ci deve essere un problema diverso. Magari è questione di campanilismi, di rivalità regionali. Il romano di oggi, che i linguisti chiamano “neoromanesco”, non è un dialetto codificato, è una semplice parlata, per alcuni genericamente un idioma. Privo di una sua specifica grammatica e di un vocabolario (a parte i folkloristici dizionari per turisti con le citazioni di Alberto Sordi), non ha l’orgoglio antico dei vernacoli borbonici, l’aristocratica solitudine del fiorentino, l’eco barbarica dei dialetti nordici. Proprio come i suoi parlanti, la caratteristica principale sembra essere quella di non avere grandi pretese letterarie. Serve piuttosto ad accompagnare le azioni quotidiane, con quell’enfatico distacco che, dentro il Grande Raccordo, è un eterno spirito dei tempi. Anche nelle sue versioni più scurrili mantiene il profilo basso, il suo effetto svanisce in fretta, la sua ostentazione è intimamente effimera, come avrebbe detto il grande Renato Nicolini. Per questo è così pervasivo: è una lingua di gomma che si adatta all’evoluzione delle cose, uno slang del disincanto a suo modo subdolo che, senza ambizioni conclamate, ha colonizzato lo spazio pubblico diventando una sorta di neolingua nazionale. Naturalmente a questa diffusione ha contribuito la logistica e la “divisione dei poteri”; sotto il Duomo pulsava il cuore economico del paese, all’ombra del Colosseo quello culturale e politico.Dal dopoguerra, salvo qualche eccezione, l’inflessione romana è stata quella dei giornali radio, dei programmi televisivi, del cinema, del doppiaggio dei film stranieri. in mano da quando hanno inventato il sonoro a un clan di famiglie romane che farebbe invidia a qualsiasi corporazione medievale. Negli anni 80 il milanese ha provato per un breve periodo a imporsi sul romano; era l’epoca degli yuppies, della città da bere, dell’edonismo reaganiano e della moda. È stata un’egemonia illusoria, l’indolente parlata della capitale ha ripreso presto il sopravvento. Anche nelle malriuscite imitazioni che regolarmente i comici padani ci propinano a suon di «mei cojoni!» e «sticazzi!» di cui peraltro confondono immancabilmente  il significato. Per questo le polemiche fonetiche su Strappare i bordi sembrano in malafede. Roba da boomer inveterati come dicono oggi i giovani. Il sospetto è che ,a disturbare tanto le sussiegose platee che arricciano il naso per il birignao delle periferie capitoline, non sia tanto il romanesco, ma i contenuti della serie, la leggerezza del suo protagonista che racconta lo smarrimento di una generazione senza sogni e senza lavoro, i trenta-quarantenni di oggi, il minimalismo di chi non ha più assalti al cielo da realizzare, palazzi di inverno da prendere, e si sente in pace nell’essere «un filo d’erba». Mettendo in scena un apparente racconto generazionale in cui la tristezza ride, e ogni risata vive di indolente amarezza, Zerocalcare non ci mostra un destino collettivo, quello è soltanto un espediente letterario per parlare di altro. Perché il cuore di Strappare i bordi batte altrove e coincide con il punto di vista del suo autore che cresce e deambula nei terrains vagues della suburra romana in un flusso di coscienza continuo. Non un trattato di sociologia o di antropologia metropolitana, non un ideologica accusa “der neoliberismo” come vorrebbero alcuni suoi fan, ma un classico romanzo di formazione capace di toccare temi personali e universali, l’amore, la paura, il dovere, la depressione, il senso di vuoto, la capacità di seppellire i dolore con una risata. Insomma il senso della vita, con buona pace di tutte le contesse.