È stata colpa del sommo sacerdote giudaico Caifa, il quale, strappandosi le vesti di fronte a Gesù, che confermava di essere il figlio di Dio, ha deciso che era giusto condannarlo a morte? O è stata colpa dei membri del Sinedrio che hanno condotto Gesù da Ponzio Pilato per farlo giustiziare, oppure della folla di giudei che di fronte al Pretore romano ha preferito liberare Barabba invece di Gesù?

La colpa a cui si fa riferimento non è quella della morte del fondatore della religione cristiana, bensì quella che ha determinato l’antisemitismo. Ma è vera questa suggestione che il sentimento antigiudaico trovi le sue radici nel racconto evangelico della morte di Gesù? Lo chiediamo a Moni Ovadia, noto musicista e uomo di teatro ebreo, oltre che attivista dei diritti civili e sociali, oggi direttore del Teatro Comunale di Ferrara.

«Indubbiamente questa accusa è alla base delle origini dell’antisemitismo, ma è il caso di precisare che, al di là del racconto del Vangelo sulla morte di Gesù, che ha una finalità religiosa, e non storica, vi sono diverse ragioni che spiegano questo addebito immeritato. Va però segnalato in primo luogo che gli storici del tempo, come Giuseppe Flavio, un ebreo romanizzato, nato poco dopo la morte di Cristo, che scrisse “Le guerre giudaiche”, fanno un riferimento solo molto vago e impreciso alla figura di Gesù.

Inoltre gli storiografi riportano che Ponzio Pilato non era affatto quel personaggio dubbioso e misericordioso, come risulta nel Vangelo, essendo al contrario feroce, e inviso perfino agli stessi romani. Ma il vero motivo per cui gli ebrei furono incolpati dell’uccisione di Cristo era più geopolitico che altro. Infatti, mentre Pietro, il principale discepolo di Gesù, era orientato a diffondere il verbo di Cristo solo all’interno della comunità ebraica, Paolo, che non ha mai conosciuto Gesù, fu il primo a rendersi conto che l’insegnamento di quest’ultimo poteva essere diffuso a tutti i popoli (da qui la parola katolikos, ossia cattolico, che in greco significa universale), e per riuscirci bisognava partire dalla capitale dell’impero, ossia Roma. A quel punto, fu gioco forza addebitare l’uccisione di Cristo agli ebrei, non potendo essere incolpati i romani.

D’altronde, non bisogna dimenticare che i primi seguaci di Cristo erano ebrei, così come lo era Gesù stesso, il quale si esprimeva in aramaico, che era la versione volgare dell’ebraico, che a quei tempi era usato solo in ambito religioso. Per di più, non vi è evidenza che Gesù volesse fondare una nuova fede, apparendo, per contro, che intendesse rinnovare la religione ebraica. A questo si aggiunge il fatto che le condanne a morte erano rare nella Giudea di allora, e avvenivano per lapidazione, e non per crocifissione, che era il metodo romano per giustiziare i condannati.

Insomma la “colpevolezza” degli ebrei, più che basarsi su fatti storici, fu strumentale per la diffusione del nuovo credo, che in appena 3 secoli divenne, con Costantino, la religione ufficiale dell’impero romano». Se il “peccato originale” fu la presunta responsabilità del popolo ebraico nell’uccisione di Gesù, vi furono poi diverse circostanze che alimentarono l’antisemitismo nel mondo occidentale, come spiega Ovadia: «Lo stereotipo dell’ebreo colpevole dell’uccisione di Gesù, che ha dato luogo a numerose ondate di persecuzioni, le quali, va detto, furono di gran lunga molto più numerose nei paesi cristiani, piuttosto che in quelli di fede islamica, non fu alimentato solo dalla chiesa cattolica, il cui antigiudaismo era esclusivamente di natura religiosa, considerando tra l’altro l’ebreo convertibile al credo cristiano, e quindi redimibile, quanto invece dalle teorie sulla razza, nate nella seconda metà del 800, ad opera dell’inglese Houston Stewart Chamberlain (il cui libro “I fondamenti del diciannovesimo secolo” fu alla base dell’antisemitismo nazista, ndr) e del francese Joseph Arthur de Gobineau (che scrisse il “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane”, ndr), che considerarono l’ebreo una razza a parte, e soprattutto dalla diffusione agli inizi del 900 del libercolo “I protocolli dei savi di Sion”, che descriveva un presunto progetto ebraico di dominio del mondo, prodotto in realtà dalla polizia segreta dello zar per suscitare l’odio verso gli ebrei nell’impero russo, allo scopo di giustificare i pogrom, ossia gli attacchi alle comunità ebraiche in Russia a cavallo del XX secolo. In questo secolo l’antisemitismo ha poi raggiunto il culmine con la follia nazista, e la conseguente Shoah, che trovava però fondamento in questo background storico, del quale facevano parte anche gli attacchi agli ebrei di Lutero e di Torquemada, l’inquisitore spagnolo di fine 400».

Se queste sono le ragioni dello sviluppo storico dell’antisemitismo, va detto che tuttora persistono alcuni luoghi comuni sugli ebrei, che spiegano (senza giustificarla) una certa antipatia attribuita ad essi. Tra questi vi è la nota attitudine agli affari di alcuni esponenti dei discendenti di Abramo: «Se è vero che ci sono ebrei che hanno avuto successo nel mondo del business – ammette Ovadia – è altrettanto vero che non è l’unico popolo ad avere questa prerogativa. Per esempio, a fondare le prime banche sono stati i fiorentini nel XV secolo, ma non per questo sono oggi antipatici. L’accumulazione capitalistica è stata un fenomeno inizialmente anglosassone, e non certo ebreo, e non per questo inglesi e americani sono invisi. In realtà, dato che fin dall’antichità le comunità ebraiche erano sottoposte a divieti e obblighi, per cui poteva essere necessario spostarsi con una certa rapidità, fu naturale specializzarsi in quelle professioni che non legavano alla terra, come il commercio, la finanza, la sartoria. Da una lunga tradizione si svilupparono talenti, che hanno consentito, anche nella recente storia economica, storie di successo, in particolare in America, come, ad esempio, il caso dei jeans Levi-Strauss».

Un altro aspetto degli ebrei che a volte viene evidenziato in modo critico, è la chiusura della comunità giudaica nei confronti delle altre persone che vivono nella stessa città. «Questa circostanza – riconosce Ovadia – che oggi è molto meno marcata di un tempo, trova la sua spiegazione nel fatto che, fino all’emancipazione degli ebrei da parte di Napoleone, molte nazioni obbligavano i giudei a vivere in appositi quartieri, noti come ghetti. Certamente, soprattutto in Israele, vi è oggi una componente della società civile, ossia gli ebrei ortodossi, che sono a loro volta una galassia composita, che tuttora favorisce i matrimoni tra persone della stessa comunità, ma nel resto del mondo questo è ormai del tutto venuto meno, e i matrimoni misti sono all’ordine del giorno».

Le proteste di queste ultime settimane in Israele, sorte a seguito della tentata riforma della Suprema Corte di Giustizia, hanno evidenziato come il popolo ebraico, dopo decenni di relativa calma, è tornato a mostrare un impegno civico finora inedito: «Le recenti manifestazioni – conclude Ovadia – sono un segnale di indubbia vitalità della società civile ebraica, e spero che in un domani non troppo lontano, una nuova generazione di cittadini israeliani proponga l’unica soluzione possibile per porre fine al conflitto con i palestinesi, ossia uno Stato binazionale con 2 popoli».