Caro Direttore,

So esattamente il giorno in cui mi sono contagiato. Era il 31 marzo 1974. Sono un romanista di prima generazione. Mio padre detestava il calcio, come quasi tutti gli sport. Vedeva solo le tappe di montagna del tour de France, con spirito sadico: “guarda un po’ che mazzo che si fanno questi qua, in bicicletta, per una maglia gialla”. Quando scoprì che erano quasi tutti dopati, deluso, smise di vedere anche quelle.

A me invece il calcio piaceva, soprattutto giocarlo, a scuola, a ricreazione. Tornare in una classe “boomer” di 40 bambini, ancora sudati e mezzi litigati, è quasi l’unico ricordo che ho di quegli anni. Non avendo uno spirito guida, potevo decidere in libertà per chi tifare. Un giorno mio padre, per cui l’idea di accompagnarmi allo stadio era come se avessero chiesto a Linda Blair di entrare in chiesa, mi affidò a mio zio, che faceva il vigile urbano e, spesso, il servizio d’ordine all’Olimpico. Il 31 marzo 1974 feci il mio primo ingresso allo stadio. Avevo 9 anni. Mio zio mi imbucò in Monte Mario. “Siediti qui, io vado a lavorare. A fine partita, non ti muovere. Aspetta che torno a prenderti”. Piuttosto intimorito, vidi, da solo in mezzo a sessantamila persone, il mio primo derby. La Lazio si giocava lo scudetto, la Roma arrancava. A metà del secondo tempo, rigore: Chinaglia va sul dischetto e segna. Ma non gli basta: va sotto la Curva Sud, con il braccio teso e il dito puntato, a sfidare quella gente cui sicuramente non apparteneva, ma che non gli aveva fatto niente di male. Rimasi dentro lo stadio mentre se ne andavano tutti, diligentemente seduto al mio posto, per oltre un’ora. E, in quell’ora di solitudine e paura che zio si fosse dimenticato di me, presi la decisione più importante. Tornai a casa, su una macchina dei vigili urbani, con una luce nuova negli occhi: ero, sono e sarò sempre romanista!

Seguirono anni di pedestri sofferenze, futuristiche magliette e faticose salvezze all’ultima giornata. Finchè non arrivò un brasiliano pallido, era il 1980. Insieme a un ingegnere di Aulla e a uno scaramantico nobile svedese, ci spiegarono che anche noi potevamo vincere. Nessuno ci credeva, anche perché, come tutte le storie epiche, cominciò con una sconfitta ingiusta. Pioveva e faceva freddo a Torino, il 10 maggio 1981, quando Bruno Conti scodellò una palla a centro area, Pruzzo fece ponte di testa e Turone, che veniva da dietro, si lanciò e segnò in tuffo: 1-0, vittoria, scudetto.

Ma “un bravo poliziotto, che sa fare il suo mestiere,” alzò la bandierina e l’arbitro annullò tutto. Lì, in quel preciso momento, vissuto minuto per minuto con l’orecchio incollato a una radiolina, compresi per la prima volta che il potere non prova vergogna quando deve difendersi. Era del tutto improbabile che quel gol fosse in fuorigioco, ma nell’incertezza scattò un riflesso pavovliano nella testa del guardalinee: se sbaglio, sbaglio a favore del più forte. Quante volte l’avrei rivisto fare nelle aule dei Tribunali durante gli anni futuri della professione. Siccome eravamo forti e intelligenti, quello scudetto ce lo saremmo ripreso due anni dopo e fu bellissimo. Quella sarà per sempre la mia Roma: Tancredi, Falcao, Ancellotti, Nela, Conti, Pruzzo e il capitano Ago… che non ce la faccio nemmeno a scriverne il nome senza provare la insostenibile tristezza di una domanda irrisolta: perché?

Il racconto di una città che finalmente vince, dopo oltre quarant’anni di attesa, si interruppe il 30 maggio 1984. Il brasiliano pallido, che ci faceva sentire belli oltre che vincenti, non tirò il suo rigore, lasciando il posto al “generoso”, ma impreciso Graziani. Pochi giorni prima mio padre mi aveva sorpreso in ingresso mentre uscivo di casa alle cinque del mattino, fuori era ancora buio pesto. “Ma dove vai?” “Ho un appuntamento” “Con chi?” “Con la Storia”.

Ricordo ancora lo sguardo sconfitto. Dove ho sbagliato? Si leggeva nei suoi occhi. Lo immagino telefonare, all’alba, allo zio vigile, rimproverandolo di avermi portato allo stadio dieci anni prima: “ma non me l’hai chiesto tu?” “e tu ti dovevi rifiutare”. Comunque, dopo sette ore di fila, due cariche della Polizia a cavallo che rispondeva ad un tentativo organizzato di assalto ai botteghini, guadagnai il biglietto (“noi fortunati pochi”) che mi permise di assistere alla più impietosa delle sconfitte, ai rigori nel tuo stadio. La Storia l’avevano scritta loro, gli inglesi. A me rimase solo il conforto di passare al Circo Massimo e sentire Antonello cantare le nostre canzoni.

Ma “il tempo insiste perché esiste il tempo che verrà”. Così, una noiosa domenica mattina di dieci anni dopo, il 4 settembre 1994, ricevo la telefonata di un amico. “Vogliamo annà allo stadio?” “Ma è Roma - Foggia” “Perché ci hai da fa’ qualcos’altro?”. Così ebbi la fortuna di esserci il giorno del primo gol in serie A di Francesco Totti. Ne seguirono, complessivamente, altri 306. Vincemmo un altro scudetto e qualche coppa. E, secondo il Karma romanista, arrivammo almeno dieci volte secondi in campionato (perché, a noi, vincere non ci interessa più di tanto). Fino al 28 maggio 2017, il giorno del “volevo morì prima”.

Mio figlio Marco, a cui avevo trasmesso la malattia da bambino, aveva già 19 anni. Ed eccoci qui, sul divano di casa, a vedere quell’interminabile giro di campo. Fatico a non commuovermi fino alle lacrime quando Francesco dice “adesso ho paura”. Non voglio farmi vedere in quello stato da Marco, ridotto in lacrime per l’addio al calcio del “pupone”. Mi alzo. “Dove vai?”, mi chiede. “La vuoi un po’ d’acqua?”, gli rispondo senza voltarmi, affrettandomi a uscire da quella stanza. Io che non ho pianto mai, nemmeno ai funerali dei miei genitori.

Tutto questo è successo perché mio zio mi portò a vedere il derby, cinquant’anni fa’? Forse. Però mi vengono in mente le parole di un grande scrittore romanista: “Tutto il tempo precedente al giorno in cui si comincia ad amare, dunque, non si può calcolare come vita vera. Piuttosto l’attesa di qualcosa, un’attesa inconsapevole, visto che non sai cosa stai aspettando e non ti rendi nemmeno conto di essere lì ad aspettarlo”.

Vede, Direttore, quando si parla di calcio a Roma, non si parla mai solo di calcio. “Il calcio non è solo una cosa maledettamente seria, è lo specchio di questa città e, in fondo, anche l’autobiografia della sua gente”. La nostra ultima illusione si è incarnata in un portoghese cinicamente intelligente e bravo che ci ha portato, per due anni di fila, in finale nelle coppe europee. Non senza una buona dose di scaramantica ipocrisia, posso dirle che, in fondo, a me non interessa quello se vinceremo a Budapest. Ci sono già passato troppe volte. Tante sconfitte, qualche bellissima vittoria e la maggior parte dei giorni in viaggio verso un obiettivo che fortunatamente si sposta sempre un po’ più là. Oggi mi limito a essere felice perché siamo ancora qui a parlare di noi, con la scusa di parlare della Roma. In fondo, per sopravvivere alla vita adulta, devi aggrapparti ad un lembo della tua adolescenza.

Con i più cordiali saluti

Andrea Armati