In realtà il processo di canonizzazione non c'entra proprio niente. Perché la polemica contro la presunta "santificazione" di Aldo Moro, contro cui si scagliava l'intervento di Marcello Veneziani di ieri sul quotidiano romano Il Tempo, non è altro che la riproposizione del giudizio che una certa area (in realtà trasversale) della politica di questo Paese ha da sempre riservato all'ex statista e leader politico pugliese. Ripetere, infatti, che Moro non espresse significative esperienze di governo, che «non si ricordano grandi riforme e grandi opere legate al suo nome», che anzi emergerebbero di lui «ambiguità» nei confronti di Tito o di Gheddafi, che la sua figura sarebbe simbolo della deriva democristiana nei confronti di una politica di respiro nazionale, significa non solo confondere le acque ma soprattutto non affrontare tutti i nodi irrisolti che - a nostro avviso - appaiono in tutta evidenza attraverso la lettura del ruolo svolto nella politica italiana del secondo dopoguerra da Aldo Moro. Il quale, invece, resta come uno dei principali "avatar" dell'interpretazione complessiva della storia politica del nostro Novecento. Il tragico destino, sia umano sia politico, di Moro insieme a quello di altri due statisti significativi dello stesso secolo come Mussolini e Craxi - ferma restando la differenza di epoca e di scenario - è a nostro avviso un capitolo ancora tutto da chiarire nelle sue implicazioni generali, soprattutto di ordine internazionale e geopolitico. Non c'è infatti bisogno di scomodare i lavori di Giovanni Fasanella, che restano comunque estremamente utili, per avvicinarsi alla complessità di azione di politica estera nazionale che i tre statisti succitati esercitarono più o meno direttamente e di cui, in buona parte, finirono anche vittime. Non si può, in altre parole, parlare di Aldo Moro - e del suo centrosinistra - senza far riferimento, soprattutto, alla sua politica estera. Che si poneva in continuità con quella vocazione nazionale italiana che, partendo da Crispi e Giolitti, e passando per Balbo e Mussolini, arriva in linea diretta sino all'episodio di Sigonella con il governo Craxi. È una politica terzaforzista e d'indipendenza nazionale che, all'epoca di Moro, di concerto con le strategie dell'Eni di Enrico Mattei, approfondisce una nostra linea autonoma nel Mediterraneo tra Nord e Sud e tenta un'intesa con i Paesi arabi anche oltre la logica di Yalta Est/Ovest. Una politica che, tra l'altro, puntava ad affrancare l'Italia dall'egemonia francese e britannica e sosteneva una nostra indipendenza energetica. Dentro questo c'è, ovviamente, quello che sarà chiamato il "lodo Moro" nei confronti dei palestinesi, ma anche una certa distensione nei confronti dell'Est comunista. Una scelta geopolitica che cozzava contro le forze - traversali - che erano schierate per altre opzioni: la preferenza per le Sette Sorelle petrolifere, l'occidentalismo spinto in politica militare, la Confindustria come alleanza economia collaterale interna.Stava insomma in queste scelte il cuore di quel centrosinistra Moro-Nenni che, sin dall'inizio, scatenerà contro di esso tutti i suoi avversari interni allo schieramento politico e parlamentare nazionale. Tanto che, per guardare agli ambienti da cui proviene l'articolo di ieri sul Tempo, anche lì, d'altronde nei primi anni Sessanta, ci fu chi si pose il problema di dove collocarsi.Tra questi Luciano Lucci Chiarissi, un ex repubblichino che "rompe" con il Msi e crea un soggetto in cui si aggregano postfascisti che, a sorpresa, guardavano con simpatia alle politiche di Aldo Moro, Pietro Nenni ed Enrico Mattei. «Si stava costruendo - racconterà Lucci Chiarissi in un libro degli anni Settanta - un vero miracolo economico, c'era un'Italia viva, malgrado ogni apparenza ufficiale, per la prepotente energia costruttiva degli italiani. I quali, proprio attraverso tanti avvenimenti, guai e vicissitudini, avevano aperto gli occhi sul mondo, e più non si accontentavano della meschina realtà che per secoli li aveva tenuti prigionieri, nei borghi e nelle loro case, di una società fossile. Erano sorti dovunque cantieri, fabbriche, centri di lavoro. Forse a modo loro gli italiani tentavano così di riscattare le ore della disfatta bellica... ». Ma nonostante ciò buona parte degli ambienti della destra italiana, rilevava amaro Lucci Chiarissi, non solo non seppero comprenderlo ma, in realtà, si posero dall'altra parte. L'Italia di Aldo Moro venne infatti snobbata con la banale battuta di "Repubblica fondata sulle cambiali". Proprio contro questo, Lucci Chiarissi, insieme a chi la pensava come lui, aveva fondato, nel 1963, la rivista L'Orologio: «Annibale non è alle porte. E comunque - vi si leggeva - non lo è a causa del centrosinistra». Tanto più che, solo per fare esempio, la riforma della scuola media attuata allora ricalcava il modello di quella mai attuata da Bottai nell'ultimo periodo dell'esperienza fascista. Al contrario, negli anni del moroteismo, la destra missina (e non) sceglie altre intese, come racconterà un eretico quale Giano Accame: «Nella venerazione per l'ectoplasma dello Stato, nelle alleanze di questo Stato e del suo establishment, con delle professioni di occidentalismo che parevano a tratti la ripetizione maniacale di scenari del passato, con gli americani messi al posto dei tedeschi; nel coinvolgimento in tante battaglie di ritardo, per le quali ha poi incontrato di volta in volta compagni di strada in interessi economici o posizioni mentali che non trovavano più altrove copertura, e così sarà per le Sette Sorelle contro l'Eni di Enrico Mattei, con l'establishment contestato contro la protesta giovanile, con l'elezione di Leone alla presidenza della Repubblica». Di contro, le vicende di quegli anni dimostrano un Aldo Moro, fine politico cattolico, teso soprattutto al superamento delle lacerazioni della società italiana, finalizzato a ricomporre un tessuto nazionale unitario in cui tutte le componenti sociali e culturali, finanche politiche, si potessero ritrovare insieme.Non a caso, di lui si ricorda l'accorato discorso alla Camera, da premier, per commemorare con grande rispetto il parlamentare missino Filippo Anfuso. Così come ieri sul Tempo si ricordava l'impegno giovanile di Moro contro le epurazioni e per la pacificazione nell'immediato dopoguerra. Perché, in sostanza, di Aldo Moro il dato centrale sarà sempre la tensione verso l'aggregazione di tutte le componenti politiche del Paese in un progetto ampio e unitario. E se non è questa politica nazionale, che cos'è? D'altra parte, come mai dalle lettere dalla sua prigionia l'ultimo Aldo Moro si rivolse più volte direttamente al generale Vito Miceli, che oltre a essere uomo di sua fiducia e capo dell'intelligence italiana negli anni del suo governo fu anche parlamentare del Msi?Ma c'è un episodio, riportato nel libro di un altro postfascista, Luigi Battioni, uno dei più stretti collaboratori di Pino Romualdi - il vero fondatore del Msi - che mai valorizzato come dovrebbe è forse la migliore replica all'atteggiamento espresso, anche ieri sul Tempo, da buona parte della destra. Racconta infatti Battioni in Memorie senza tempo (Fergen, 2009) che - plausibilmente nel 1977 - una domenica sera Moro si imbatte in Romualdi, personaggio che lui stimava e con cui interloquiva - su un traghetto tornando dalla Sardegna. Riferì testualmente l'esponente missino a Battioni: «Il pensiero di Moro è come una matassa aggrovigliata, ma se hai la pazienza di cercare il bandolo, tutto si snoda perfettamente e il pensiero diventa lucido, preciso come un teorema. Moro è veramente - questo era il giudizio di Romualdi - la testa pensante della Dc, una buona testa?». L'argomento principale del colloquio, comunque, fu sulla necessità di costruire in Parlamento una maggioranza davvero nazionale vasta, per consentire al Paese di affrontare al meglio anni di crisi e di terrorismo. «Inevitabile - spiegò Moro a Romualdi, il quale, pur da uomo dell'opposizione di destra, comunque capiva - che occorre vincere le resistenze popolari e di una certa opinione pubblica per portare nella maggioranza di governo anche il Pci, ovviamente insieme ai socialisti, e così realizzare una coalizione in grado di disporre di oltre il 70 per cento dei consensi e delle forze parlamentari». Stando al resoconto, Romualdi non si scompose affatto, mostrando di comprendere, mentre Moro aggiunse: «Sarà inevitabile ma proficuo per il Paese. Io non mi nascondo le difficoltà per convincere gli elettori moderati e, quelle ancora maggiori, per tenere al passo i comunisti nel governo, affidando loro responsabilità precise, senza possibilità di smagliature, di slabbrature, di sfondamenti a favore di ciò che a loro interessa. Io conosco quello che è accaduto a Praga e conosco il metodo. Ma l'unico all'altezza di tale compito sono io, e io solo?». Una strategia, quella che poi conosceremo come "compromesso storico", la quale tendeva a inglobare, "sdoganare" come si è detto poi, il Pci, disinnescandone le residue pulsioni antisistema e responsabilizzandone la classe dirigente all'interno di un progetto nazionale che - stando a questa ricostruzione - Moro avrebbe voluto, forse, che fosse compreso anche dalla destra.Poi, come è andata la storia lo sappiamo. Con il solo Craxi e i radicali a cercare di salvare Moro, durante il suo sequestro da parte delle Br, attestati sulla cosiddetta "linea della trattativa". E gli altri, inclusa la destra almirantiana, tutti barricati sul fronte della fermezza. Con il risultato, guardando all'area destra dello schieramento politico e culturale, che ancora oggi a fronte della permanenza di una "strategia dell'equivoco" sull'intera parabola morotea non si registra neanche una voce critica nei confronti, per restare al campo democristiano, di figure oggettivamente controverse come Andreotti o Cossiga. E qualcosa deve pur significare.