Reazionario, razzista, omofobo, sessista, delatore, fascista, antisemita, megalomane, tirannico. Ma anche un fanatico militante dell’american way of life, del suo capitalismo sfrenato, del suo individualismo senza limiti, della sua piatta egemonia culturale. A cinquant’anni dalla morte, i cliché fioriti nel tempo intorno alla figura di Walt Disney accompagnanola sua opera come un’ombra sinistra; intere generazioni di bambini sono stati messi in guardia dai nefasti effetti dell’immaginario disneyano, considerato dagli edificanti genitori come una specie di cavallo di Troia dell’ideologia d’oltreoceano, una dispensa di indottrinamenti bigotti e piccolo borghesi. Disney amato da Hitler e da Goebbels che andavano pazzi per i suoi cartoons, Disney citato nei Cantos di Ezra Pound, Disney ricevuto per ben due volte dal Duce (1932-1937), Disney adepto del pensiero magico- esoterico. L’aura di “ principe nero di Hollywood”, si è modellata intrecciando pochi episodi reali e molte, troppe leggende metropolitane.

Uno degli ultimi lavori del mu- sicista Philip Glass, The perfect american, un adattamento del romanzo di Peter Stefan Jungk

The king of America in cooperazione con il regista teatrale Phelim McDermott, ad esempio riattinge a piene mani nel catalogo degli stereotipi, facendo letteralmente a pezzi il padre dell’animazione moderna, rappresentato come un personaggio oscuro, sopraffatto dal livore e dal malanimo. Sulla scena del musical un Disney sgradevole impreca contro « negri e capelloni che fornicano come conigli », assediato dai suoi fantasmi trasfigurati in topi, gufi, anatre, con un coro greco di paperi che intona un cacofonico « quack- quack » , attende la propria morte tormentato dall’angoscia e dai rimpianti. Quella di Glass- McDermott non è che l’ennesima prova di diffidenza degli intellettuali nei confronti di Oncle Walt, al quale hanno sempre rimproverato di costruire un mondo illusorio e fiabesco che occulta le ingiustizie e i conflitti e sterilizza il senso critico dei giovani. « Oggi sarebbe al fianco della destra religiosa di Mitt Romney e favorevole all’uso incontrollato delle armi da fuoco » , ha sentenziato Jungk durante la presentazione del libro.

Ora che l’impero Disney è diventato la più rutilante e proficua fabbrica di sogni planetaria ( fattura oltre 40 miliardi di dollari l’anno), si contano ancora a milioni coloro che vedono in quel mondo di animali antropomorfi, di zelanti topolini amici della polizia, di paperi sfigati che si muovono lungo metropoli sospese nel tempo, un subdolo elemento di corruzione e di colonialismo culturale.

Nel 1992, quando venne aperto il parco di Eurodisney alla periferia di Parigi, la regista teatrale francese Arianne Mnouchkine in uno slancio molto engagé parlò senza mezzi termini di «Chernobyl della cultura » . Parole in libertà che però rendono bene il clima ostile con cui l’intellettualità diffusa della “ vecchia Europa” accoglie la glassa disneyana che si posa viscida e zuccherosa sulle nostre care vecchie tradizioni culturali. Walt Disney non era un progressista, a lungo informatore dell’Fbi è stato in prima linea nella campagna di caccia alle streghe durante le purghe maccartiste, nutriva una paura e un’avversione viscerale verso l’Unione sovietica e il comunismo, ha combattuto contro i sindacati che vedeva come fumo negli occhi, ma non era un propagandista del capitalismo e di sicuro non era un un antisemita, come ha spiegato a più riprese il suo biografo Neal Gabler, ricordando peraltro l’impegno degli studios durante la Seconda guerra mondiale contro l’asse Berlino- Roma- Tokyo. Per utilizzare le parole del saggista Alessandro Barbera che ha consacrato un accurato lavoro alle ispirazioni ideologiche di Disney, l’inventore di Donald Duck era un «conservatore rivoluzionario o forse un reazionario modernista» , in ogni caso una figura sfaccettata, senz’altro controversa, di sicuro non il tetragono padre- padrone con simpatie nazistoidi descritto da tanta superficiale critica.

La sua opera ha al contrario rispecchiato fedelmente l’evoluzione della società americana nelle sue cicliche metamorfosi; ottimista con tratti liberal durante gli anni rooseveltiani del new deal, più cupa e patriottica nel corso della Guerra Fredda. Sempre sul filo dell’ambiguità, dell’ambivalenza. Prendiamo la figura di Zio Paperone; è un elogio del tycoon capitalista oppure una sua grottesca caricatura? Il deposito zampillante di monete d’oro e verdoni fruscianti sembra un’allegoria dell’accumulazione primitiva del capitale, mentre il rapporto carnale che il vecchio miliardario intrattiene con la propria ricchezza appare come una forma malata di feticismo. E che dire di Paperino? Rappresenta forse il suddito alienato, fondamentalmente qualunquista e amorale oppure è il simbolo riottoso del cittadino non integrato, un apocalittico insofferente a qualsiasi forma di inquadramento e disciplina? La dialettica servo- padrone Ma Disney è stato in primo luogo un’artista, un’artista e un creatore, il padre del fumetto e dell’animazione moderna, un genio in grado di cimentarsi anche con opere concettuali e sofisticate, basti pensare a Biancaneve e i sette nani, al complesso simbolismo che costituisce sottotesto della fiaba e all’ambiguità della sua messa in scena, o all’erotismo onirico di Alice nel paese delle meraviglie. In tutta la sua produzione, anche quella più convenzionale, le allusioni sessuali e, in senso lato, le pulsioni trasgressive si generano e manifestano dentro un’universo puritano e tranquillizzante, una produzione destinata alle famiglie e con il lieto fine incorporato ma allo stesso tempo foriera di interpretazioni differenti di doppi livelli e significati. La stessa complessità che una critica derelitta e ideologica non è mai riuscita a cogliere, tutta impegnata a voler dimostrare quanto Walt Disney fosse un brutto ceffo, «l’uomo più pericoloso d’America » come scrisse un giorno il filosofo tedesco Theodor Adorno.

 

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