L’Unesco ha inserito Ivrea, “Città industriale del XX secolo”, nella lista del Patrimonio mondiale dei siti d’eccellenza storico- culturale; è, tutto sommato, un riconoscimento non disprezzabile, e non solo per accrescere l’appeal turistico della bella cittadina del Canavese.

Il riconoscimento, Ivrea lo deve al fatto di essere stata, per poco meno di un secolo, la sede delle officine Olivetti, a lungo una delle industrie italiane di punta. Olivetti, e qui parliamo del suo esponente più noto, Adriano, vi realizzò il sogno della citttà armoniosa, nella quale, attorno alla industria trainante, l’intera società civile si riconoscesse e si stringesse superando il conflitto, storicamente ritenuto come ineliminabile, tra capitale e lavoratori.

A lungo Olivetti tee accesa la fiamma di questo ideale, chiamando a collaborare, a Ivrea, architetti, sociologi e intellettuali di qualche caratura.

Circolò la battuta del leone che era riuscito a bellamente vivere e ingrassare nutrendosi solo di intellettuali impiegati a vario titolo nelle attività create a Ivrea da Adriano. Forse, si trattava di un ideale un po’ forzato e volontaristico, alla morte di Adriano il castello fu smobilitato, l’industria venne smagrita dei pesi e delle responsabilità non sue, per essere riportata alle sue essenziali funzioni di struttura produttiva, non di soggetto culturale. Venne chiuso uno dei simboli del sogno olivettiano, la bella rivista “Comunità”, per qualche tempo divenuta addirittura organo di un omonimo movimento politico, che però non decollò mai. La sede romana di Comunità, a Via di Porta Pinciana, con la sua ricca biblioteca fu punto di riferimento di intellettuali della più varia estrazione. Comunità, espressione di un socialismo umanitario, non marxista, impastato di cristianesimo evangelico, si poneva a contraltare del liberalismo crociano de Il Mondo di Pannunzio e dell’anticlericale Ernesto Rossi: un confronto ad alti livelli. L’esperienza olivettiana e la sua città meritavano il riconoscimento dell’Unesco, ma Olivetti non inventò nulla. Tutto quel che fece era l’ultimo prodotto di una cultura specifica, quella del socialismo umanitario dalle ricche tradizioni speciamente anglosassoni e inglesi. Il problema del rapporto tra capitale e lavoro venne sentito fin dagli inizi dell’industrializzazione. Marx stabilì, su basi definite scientifiche, che quel rapporto non poteva essere che conflittuale, la “lotta di classe” era addirittura un motore della storia. Ma i tentativi di costruire alternative non mancarono.

A Saltaire, all’imbocco delle Yorkshire Dales, cuore dell’Inghilterra, su una gobba di terreno a prato declinante fino all fiume Aire, si eleva una specie di torre, fuori misura con tutto quel che le sorge intorno. La metà inferiore, curvilinea e tozza come il tempio di Vesta a Roma, è cinta da sei alte e sottili colonne corinzie che sorreggono una liscia, spaziosa cornice; sopra, si erge un cupolino di stampo barocco. La torre riempie e gonfia il lato corto di un edificio a pianta rettangolare: le sei colonne e il cupolino formano una specie di pronao semicircolare. L’altro lato corto è più modestamente absidato. Il barocchismo italianizzante trae in inganno, si tratta di un tempio protestante, la Saltaire United Reformed Church. La Chiesa si colloca al centro del villaggio modello ideato dall’industriale Titus Salt e costruito a sue spese tra il 1851 e il 1876. Su un’area di 25 acri, comprendeva una enorme fabbrica tessile, il Salt’s Mill, 775 abitazioni monofamiliari distribuite in lunghe file su 22 strade che si incrociano ad angoli retti, 45 case per i poveri ( Alms Houses), un ospedale, scuole, una libreria con sale di lettura, un teatro con 800 posti, una scuola d’arte, locali di ricreazione con biliardi, una palestra, bagni pubblici, lavanderie, essiccatoi, ecc. Luce e calore erano assicurate a fabbrica e abitazioni da un impianto a gas. Una cittadina perfettamente autosufficiente, arroccata attorno alla grande manifattura che, con i suoi macchinari a vapore e i 1200 telai meccanici produceva ai suoi tempi 30.000 yarde al giorno ( circa 24 km) di ottimo tessuto di lana. Dai primi del novecento comincia la decadenza.

Robert Owen ( 1771 – 1858), gallese, fu un industriale tessile e un filantropo riformatore, tra i fondatori del socialismo utopico e del movimento cooperativo. E’ noto per i suoi sforzi tesi al miglioramento delle condizioni di lavoro in fabbrica e alla creazione di sperimentali comunità, una anche in America, “New Harmoby”, in Indiana, modello di società utopica. E’ grazie a progetti come questi che l’industrialismo nascente cercò di negoziare con il mondo del lavoro una illusione di solidarismo che evitasse gli scontri della lotta di classe. Siamo a mezza strada tra Santa Maria di Leucio e le sue Regie Manifatture volute da Re Carlo III Borbone di Napoli, le realizzazioni olivettiane di Ivrea che a Saltaire e Owen si sono ispirate, o magari gli Ateliers Nationaux di Luigi Filippo: città armoniose, falansteri utopici ispirati a Fourier, nelle quali il progetto architettonico fosse culla di una società ideale dalla quale bandire efficacemente il conflitto tra capitale e lavoro.

L’aspirazione alla pace sociale fu tormento di un’epoca che non aveva ancora chiaro quale dovesse essere il modello dei rapporti di fabbrica. Quando Sir Titus Salt morì, il feretro venne accompagnato da 100mila persone, che in lui avevano creduto. E, piaccia o no, l’utopia o anche l’idealismo socialista, da Campanella a Fourier, non si è mai scostato dalla visione organicista della città perfetta, ordinata e senza contrasti che qui vede realizzati i suoi incunabuli. Marx cercò di scalzarli via, come roba da zitelle inglesi, ma il suo socialismo realizzato, il comunismo senza Stato e senza moneta, è una Saltaire dilatata per mille.