Al termine della sua acuta e divertente storia dei tecnici succedutisi negli ultimi 25 anni e più della Repubblica al vertice di quello che era il Ministero del Tesoro, ed è poi diventato il super dicastero dell’Economia assorbendo quelli delle Finanze e del Bilancio, Paolo Delgado mi è sembrato rimpiangere o comunque preferire a quel posto un politico.

Altrettanto vorrebbero i grillini, ma per fini meno nobili, visti i loro burrascosi rapporti col tecnico Giovanni Tria, e ancor più con i suoi più stretti collaboratori, accusati anche dal portavoce del presidente del Consiglio di boicottare il generoso programma di spese del governo gialloverde con un’attenzione spasmodica ai numeri e ai decimali. Anzi, ai ' numeretti', come ha cominciato a definirli sprezzantemente il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, nonché super ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro.

Ma anche guidato dai politici il Ministero del Tesoro è stato spesso nella lunga storia della Repubblica una spina nel fianco del presidente del Consiglio di turno, una specie di arma segre- ta o finale nella difesa di vecchi equilibri o nella ricerca di nuovi.

Emblematica fu a questo proposito la lunga e neppure tanto sotterranea guerra fra Emilio Colombo e Aldo Moro negli anni Sessanta, e Settanta, alla nascita e negli sviluppi della politica e delle alleanze di centro- sinistra, allora doverosamente col trattino per non confondere demoposte cristiani e socialisti, che ne erano i principali attori.

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Siamo alla primavera del 1963. Dopo le elezioni del 28 e 29 aprile per il rinnovo delle Camere il segretario della Dc Aldo Moro è pronto a fare il governo col Psi di Pietro Nenni. Che invece ha bisogno di qualche mese di tempo per le resistenze op- dalla sua sinistra interna capeggiata da Riccardo Lombardi.

Moro pensa di concedere il tempo chiestogli da Nenni adoperandosi per la formazione di un governo dichiaratamente provvisorio, di attesa, da far guidare - per dargli anche una maggiore caratura istituzionale e neutrale - dal presidente democristiano della Camera Giovanni Leone.

Nel frattempo, il 3 giugno, muore Papa Roncalli, Giovanni XXIII. Ai cui funerali partecipa per l’Italia il presidente della Repubblica in persona, il democristiano Antonio Segni. Che al termine della cerimonia offre un passaggio in auto al giovane collega di partito Emilio Colombo, già sottosegretario in vari governi e ministro dell’Industria, ma particolarmente caro al capo dello Stato per avere organizzato l’anno prima la sua elezione al Quirinale, dopo il settennato di Giovanni Gronchi, in collaborazione con Francesco Cossiga, conterraneo di Segni, e Mariano Rumor: ma col concorso non certo secondario del segretario del partito, nell’ambito di un gioco di pesi e contrappesi in vista della realizzazione del centro- sinistra, dallo stesso Moro anticipato e fatto approvare dal congresso della Dc.

In auto Segni sorprende Colombo offrendogli la presidenza di un governo monocolore democristiano senza durata e sbocco definiti, non fidandosi forse della pausa chiesta dai socialisti e della loro effettiva disponibilità ad allearsi poi con la Dc.

Tanto lusingato quanto astuto, Colombo avverte il rischio di entrare in rotta di collisione con Moro e, non sentendosi ancora attrezzato per una prova del ge- nere, rifiuta l’offerta di Segni, con argomenti o scuse però che non gli fanno perdere la fiducia del presidente. Il quale lo mette a guardia del vitale Ministero del Tesoro quando, aderendo alla linea di Moro, nomina il 21 giugno il primo governo ' balneare' di Leone. E al Tesoro il giovane Colombo, intanto cresciuto di ruolo, di ambizione e di sicurezza, rimane quando Moro il 4 dicembre succede a Leone formando il previsto e primo governo ' organico' di centro- sinistra.

La collaborazione con i socialisti, per quanto guidati a Palazzo Chigi moderatamente da Nenni come vice presidente del Consiglio, si rivela sempre più faticosa e onerosa del previsto ai ' dorotei', come si chiamavano i colleghi di corrente di Moro nella Dc, rappresentati al vertice del partito dall’ormai segretario Mariano Rumor.

In particolare, non piacciono ai democristiani le crescenti richieste di spesa del Psi: un po’ come sta accadendo adesso di fare ai grillini, mi verrebbe la voglia di scrivere se non fossi trattenuto dal timore di far perdere loro la testa paragonando Beppe Grillo e persino Di Maio a Nenni e il centro- sinistra originario all’attuale governo gialloverde.

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Incoraggiato non so se più da Segni al Quirinale o da Rumor a Piazza del Gesù, il 25 maggio 1964 Colombo scrive a Moro una lettera allarmata per la situazione economica e finanziaria del Paese, compromessa dai socialisti che - racconterà lo stesso Colombo nel 2004 in una intervista a Pierluigi Vercesi per il supplemento Sette del Corriere della Sera - “sono entrati nelle stanze del potere volendo distribuire quattrini e scatenando l’inflazione”.

Dopo due giorni la notizia della lettera del ministro del Tesoro e una sua sintesi compaiono sul Messaggero con la firma di Cesare Zappulli, destinato nel 1974 a fondare con Indro Montanelli, Guido Piovene ed Enzo Bettiza il Giornale e più avanti ad essere eletto senatore a Genova in un esperimento di fronte laico.

Colombo tenta una smentita, che non placa le polemiche scatenatesi anche per l’amicizia notissima fra il ministro del Tesoro e l’autore dello scoop. La tensione politica, all’interno della Dc e fra la Dc e il Psi, sale alle stelle. Guarda caso, complice un incidente parlamentare verificatosi a scrutinio segreto sui finanziamenti di Stato alla scuola materna, Moro è costretto il 26 giugno a dimettersi e ad aprire una crisi di governo gestita con una certa forza, diciamo così, al Quirinale da Segni. Che convoca il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, e già capo dei servizi segreti, per chiedere e ottenere garanzie sul mantenimento dell’ordine pubblico nel caso di incidenti di piazza contro la formazione di un governo senza i socialisti.

Segni non pensa più a Emilio Colombo proprio per via della lettera che ha scatenato le polemiche e offre Palazzo Chigi a Mario Scelba. Che però, pur avendo osteggiato la linea del centro- sinistra, gli manifesta dubbi sulla opportunità di interromperla così presto, suscitando probabilmente nelle piazze incidenti analoghi a quelli verificatisi nel 1960 col governo monocolore democristiano di Fernando Tambroni, formato nella speranza di procurarsi i voti dei socialisti in Parlamento e finito per guadagnarsi la fiducia dei missini.

Quando Segni, per tranquillizzare l’interlocutore, che ne parlerà poi in un libro di memorie, gli rivela le assicurazioni appena ricevute dal comandante generale dei Carabinieri, Scelba lo sorprende ripetendo ancora più forte il suo rifiuto.

questo punto svolta verso la ricomposizione del governo dimissionario di Moro, mentre Nenni scrive nei suoi diari di avere sentito “rumori di sciabole”. E Colombo viene confermato ministro del Tesoro conservando alta, anzi altissima la vigilanza sui conti: tanto che nel 1967, dopo l’unificazione fra socialisti e socialdemocratici, favorita dall’elezione tre anni prima di Giuseppe Saragat al Quirinale per sostituire Segni impedito da un ictus, rifiuta il finanziamento di una legge proposta dagli alleati di governo per l’istituzione della pensione sociale.

Le elezioni del 1968, svoltesi alla scadenza ordinaria perché non si è ancora presa l’abitudine di anticiparla, puniscono le attese del partito socialista unificato, che prima di spaccarsi di nuovo attribuisce la colpa dell’insuccesso alla debolezza di Moro rispetto al suo ministro del Tesoro. Che capisce l’antifona e, dopo un altro governo balneare di Giovanni Leone, si fa più generoso e facilita le trattative fra Rumor e i socialisti per un’edizione “più incisiva e coraggiosa” del centro- sinistra. In particolare, egli trovando i fondi per le pensioni sociali.

Moro naturalmente ci rimane male, ma gli tocca subire e passare volontariamente all’opposizione interna, in attesa di tempi migliori. Che verranno, col suo ritorno a Palazzo Chigi nel 1975, ma per poco. Egli è purtroppo destinato nel 1978 ad essere sequestrato dalle brigate rosse fra il sangue della sua scorta e poi ad essere ucciso pure lui.

Da guardiano più generoso dei conti Emilio Colombo rimane al Ministero del Tesoro nel primo, secondo e terzo governo Rumor, fra il 12 dicembre del 1968 e l’estate del 1970, quando forma - il 6 agosto- il suo primo e unico governo, di centro- sinistra, destinato a durare sino al 15 gennaio 1972.

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A determinare la caduta del governo Colombo, in cui le funzioni di ministro del Tesoro sono svolte dal fedelissimo Mario Ferrari Aggradi, non è una questione di fondi, numeri o numeretti, ma il combinato disposto di due problemi: la rottura intervenuta a fine dicembre del 1971 fra democristiani e socialisti, per l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale con una maggioranza di centrodestra, e l’interesse del segretario in carica della Dc, Arnaldo Forlani, ad evitare con le elezioni anticipate il rischioso referendum in programma nella primavera del 1972 contro la legge sul divorzio.

Colombo cerca inutilmente da Palazzo Chigi di evitare il suo sfratto, che gli viene invece intimato praticamente da Forlani in una tesissima riunione della direzione del partito, dove nessuno più sente obblighi di riconoscenza evidentemente per l’ex ministro del Tesoro prestatosi prima a chiudere e poi ad aprire i rubinetti della cassa nella tormentata esperienza di governo con i socialisti, ma anche a detronizzare suo tempo Moro.

La detronizzazione di Moro peraltro non si è esaurita con la sua estromissione da Palazzo Chigi nel 1968. Essa ha avuto una coda sotto Natale del 1971, quando Colombo ha partecipato col suo peso di presidente del Consiglio con Rumor e Piccoli nella Dc, e con Ugo La Malfa e Giuseppe Saragat fuori dalla Dc, anche alle operazioni politiche contro la candidatura morotea al Quirinale, scambiata nella rappresentazione mediatica come un cedimento, o un’apertura eccessiva all’opposizione comunista.