A parte il commercio ( che comunque implica sempre un margine di vantaggio per chi lo attua) ci sono due luoghi dove da sempre e disinteressatamente si possono incontrare le culture diverse: la cucina e la musica, basti pensare alle lettere di Mozart al padre in cui si pone come obiettivo di scrivere una musica bella come quella italiana, agli schiavi nei campi di cotone che una volta portati alle funzioni protestanti imparano il gusto della musica greco giudaico cristiana per le attese deluse e ricompensate più o meno del previsto, per l’interesse dei musicisti jazz degli anni ‘ 40 per gli accorsi usati da Debussy o Ravel o se vogliamo, molti anni prima che Peter Gabriel con la sua etichetta Real World pose l’attenzione su quella che poi sarebbe stata chiamata da tutti World music, o al modo di Frank Zappa di arrangiare i suoi brani, traendo ispirazione dalla contemporanea colta più ostica alle parodie spietate di tutto ciò che fosse possibile parodiare.

C’è un’Orchestra partita dal centro di Roma e più specificamente da piazza Vittorio, che gira il mondo ottenendo unanimi consensi e che dalla critica nostrana è un po’ relegata e inchiodata alla retorica della multi etnicità, del dialogo tra le culture e tante cose senz’altro meritevoli, ma che come dicevo da sempre è appannaggio della musica e di cui si continua a considerare poco il lato musicale che è di grandissimo valore. Sto parlando dell’orchestra di piazza Vittorio che è in scena con la sua lettura del Don Giovanni al teatro Olimpico di Roma.

A dispetto della precedente produzione “mozartiana” targata OPV del flauto magico la prima cosa che colpisce è l’esiguo numero di musicisti sul palco. Parafrasando Miles Davis si può dire che, oltre al cast dei cantanti, sul palco ci sono «quattro musicisti e un batterista: Leandro Piccioni che da anni suona il piano con Ennio Morricone, responsabile con Mario Tronco e Pino Pecorelli ( il bassista) degli arrangiamenti Andrea Pesce ( Blue motion, Elisa, Tiro Mancino ecc.), Ernesto Lopez Maturel ( percussionista della Pausini) alla batteria, ma che al contrario di quello che diceva Davis canta e suona in maniera encomiabile ed Emanuele Bultrini ( attivo in quell’ altro piccolo miracolo che risponde al nome de “La batteria”) alle chitarre. Tutto qui. Nessuno spazio a strumenti eccentrici, assoli di percussioni e riti dionisiaci e catartici cui l’orchestra ci ha abituato dall’inizio della sua storia.

Il cast dei cantanti è consono e coinvolgente: Petra Magoni giogioneggia nel ruolo di Don Giovanni con tutti gli eccessi scenici e vocali che ci si può aspettare da un’interprete del suo calibro. Omar Lopez Valle si alterna con Dario Ciotoli nel ruolo di Leporello, Mama Marjas è Zerlina, Hersi Matmuja è Donna Elvira, Simona Boo è Donna Anna, Evandro dos Reis ( che in passato è stato pure il chitarrista del gruppo) Don Ottavio, Houcine Ataa è infine Masetto.

I recitativi, necessari alla narrazione, ma al tempo stesso difficilissimi da riportare a un linguaggio contemporaneo sono stati affrontati sostanzialmente in chiave jazz che però si evolvono tra la disco e il rap. Da “Notte giorno faticar” diventata un ragtime in cui il piano si sostituisce all’orchestra nelle risposte allo sfogo di Leporello, alle splendide ed emozionanti le rielaborazioni in chiave Doo Wop di “madamina il catalogo è questo” e “Tutto tutto già si sa”, lo spettacolo corre veloce fino al gotico invito alla “statua gentilissima” e alla conseguente punizione del dissoluto in chiave quasi dark, restando ben ancorata al mondo musicale occidentale con poche concessioni al “multi etnico” se si esclude il cantato in arabo di masetto e qualche spazio di portoghese, tra cui molto bella è la struggente trasposizione di “dalla sua pace la mia dipende” in cui Dos Reis si accompagna con la chitarra acustica.

Insomma uno spettacolo diverso dalle altre produzioni ( non solo il già citato “Flauto magico”, ma anche la” Carmen”), più elettronico e probabilmente più maturo, ma sappiamo già che sarà comunque bellissimo rivederli in tanti su un palco suonare i vecchi successi, con un pubblico scatenato che si dimena al suono di ritmi di tutto il mondo e non potremo che apprezzare ulteriormente le molteplici sfumature di questo collettivo che forse andrebbe considerato e studiato maggiormente per l’aspetto artistico oltre che per quello, indubbiamente meritorio che da anni portano avanti, che dovrebbe essere campo di indagine più per i sociologi che per chi si occupa di musica.