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«Vieni a vedere il mio mare / Io lo tengo nel cassetto / Una conchiglia, due stelle / Tre gocce di mare blu / Un cavalluccio marino / E un sasso colore del sol». Quando arriva a Sanremo nel 1961, Maria Ilva Biolcati non è più Sabrina – nome d’arte con cui si era esibita fino allora – ma Milva. Ha una gran cotonatura per quella sua massa di capelli rossi e dicono si metta i reggiseni imbottiti e tre paia di calze per camuffare la sua magrezza, che poi invece esibirà in modo sensuale. Ma una ragazza che viene dall’Emilia-Romagna, da Goro, non può essere magra. E poi, non vanno ancora. Milva canta in coppia con Gino Latilla, un cantante d’altri tempi, dal “bel canto italiano”. E lei non è da meno – ha studiato canto a Bologna, si è esibita in tanti locali, poi ha vinto un concorso della Rai, e eccola qua, con la sua “Il mare nel cassetto”. Magari è convinta di farcela. E invece vince Roberta Corti, in arte Betty Curtis, come le ha suggerito Teddy Reno perché fa “americano”, con una canzone di Giulio Rapetti, che in seguito si chiamerà Mogol, cantata insieme a Luciano Tajoli, anche lui “il bel canto” – “Al di là”. Stavolta non fa “l’urlatrice”, Betty Curtis, e vince. Milva non ci sta, arriverà terra, e alla premiazione le due cantanti si scambiano gestacci. Eccola “la pantera di Goro”. Che allora, le ragazze che cantavano e conquistavano il pubblico, dovevano essere selvagge: c’era “l’aquila di Ligonchio” che era Iva Zanicchi, la “tigre di Cremona”, che era Mina, e la pantera, che era Milva. Grandi rivalità. D’altronde, mica per dire erano selvagge. Un pugno d’anni, e Milva cantava Brecht. Come quella ragazza un po’ goffa e “impalata” si sia trasformata in “Milva la Rossa”, capace di cantare in tedesco e incantare i tedeschi, di fare coppia con Astor Piazzola in Argentina o con Georges Moustaki in Francia e di esibirsi in Corea e in Giappone, di diventare una leggenda – è una storia straordinaria del talento e della volontà. Aveva giurato, in quel lontano 1961, di non tornare mai più a Sanremo – e invece ha calcato il palco dell’Ariston per quindici volte, lasciando ogni volta innamorati i suoi fan e infastiditi i suoi detrattori. Troppo “teatrali” le sue esibizioni, per alcuni; proprio come troppo “canterine” erano, per i “custodi del rigore”, le sue esibizioni in teatro. E forse stava invece tutta lì, in questa contaminazione mai risolta, il suo fascino. Non era “brechtiana” Milva, certo – e solo Strehler, che rivoluzionò il Piccolo di Milano, poteva intravedervi una straordinaria capacità; ma proprio come non era più “sanremina”. Scelse il teatro perché forse non ne ricavava la popolarità che poteva darle la musica, ma le dava un’aura di interpretazione, direi: di autenticità (se riuscissimo a parlare del teatro brechtiano, ma non è cosa qui), molto più di quella che può dare una canzone. E poi, lei, di arrivare dietro qualcuno – non era proprio carattere. Voleva essere la prima. E la prima lo è stata – senza dubbio. Fino a ricevere onorificenze ufficiali, e mica solo in Italia. Ritiratasi dalle scene, per l’insorgere di malattie, non aveva abbandonato la musica. Lavorava con Franco Battiato – uno di cui certo non può dirsi che faccia solo canzonette. Lascia un segno indelebile. E non solo nella storia della canzone italiana. Ma nel nostro immaginario. Per sempre, lei sarà “Milva la Rossa”. Una fiammata che incendia i cuori.