Nel 1977, mentre in Italia, si continua a proseguire sull’onda egemonica del sinistrese militante, in Francia esplode improvvisamente la stagione dei “nuovi filosofi”. Cosa accade? Che un gruppetto di giovani intellettuali d’un tratto impone un rovesciamento di segno nell’immaginario collettivo e nella sensibilità politico- culturale diffusa. In prima linea Bernard- Henri Lèvy con André Glucksmann, Jean- Marie Benoit, Christian Jambet, Guy Landreau e Jean- Paul Dollé.

Nel 1977, mentre in Italia - nonostante tutto e malgrado alcuni fenomeni di rottura come gli “indiani metropolitani” - si continua a proseguire sull’onda egemonica del sinistrese militante, in Francia esplode improvvisamente la stagione dei “nuovi filosofi”. Cosa accade? Che un gruppetto di giovani intellettuali d’un tratto impone un rovesciamento di segno nell’immaginario collettivo e nella sensibilità politico- culturale diffusa.

Eppure, paradossalmente, anche queste giovani promesse della cultura uscivano fuori dal pensiero e dalla prassi del ’ 68. Era proprio così: Bernard-Henri Lèvy con André Glucksmann, Jean- Marie Benoit, Christian Jambet, Guy Landreau e Jean- Paul Dollé non sono nient’altro che una pattuglia di pensatori e agitatori di idee formatisi nella stagione del Maggio e che, a metà dei Settanta, avviano un significativo e decisivo movimento di critica al totalitarismo e al comunismo.

«È una nuova filosofia spiegherà Lèvy - di cui si tende a dimenticare che non sarebbe stata possibile senza un aggancio implicito al pensiero sessantottino». Questi giovani pensatori, infatti, sono allievi di Althusser, di Foucault, di Lacan, i maestri del sospetto della contestazione studentesca. Tuttavia, con i testi da loro pubblicati presso l’editore Grasset, nelle collane dirette proprio dal giovane Lévy, assestano un colpo fatale alla mentalità militante, organizzativistica, gruppettara e ideologica proprio perché inatteso e non proveniente da un’area conservatrice. Già nel ’ 75 era uscito un pamphlet scandaloso, antitotalitario e anticomunista, dell’ex maoista André Glucksmann: La cuoca e il mangia- uomini: sui rapporti tra Stato, marxismo e campi di concentramento ( e che in Italia arriva nel ’ 77, pubblicato da L’erba voglio di Elvio Fachinelli). Ma è due anni dopo che l’uscita del saggio La barbarie dal volto umano di Bernard- Henri Lévy provoca un vero e proprio terremoto intellettuale.

Philippe Sollers su Le Monde saluta immediatamente il libro come «il manifesto» dei nouveax philosophes. «Ho voluto la Politica esordisce l’autore, un giovane accademico di soli ventinove anni - e mi è capitato di mescolarmici, di gridare fra i lupi, di cantare nei cori: adesso non ce la faccio più, mi sento come un giocatore, che non spera ormai più di vincere, o come un guerriero che non crede più alla guerra che fa». Era la presa d’atto ufficiale dell’addio al marxismo, e addirittura al socialismo, così come a tutte quelle che vengono definite «litanie gauchogauchiste» da parte di un gruppo di intellettuali, che attraverso il loro portavoce dichiarano senza mezzi termini: «Non militeremo più, esiliati per lungo tempo da quella che chiamiamo la politica». E ancora: «Non saremo mai più i consiglieri dei Principi, mai più avremo o vorremo il potere…». E il nuovo Ribelle più che di natura politica sarà semmai, auspica Lévy, metafisico, artista e moralista.

Un modo come un altro per archiviare definitivamente Marx e Lenin e riscoprire o rileggere, come suggeriscono le pagine del pamphlet, autori sino ad allora rimossi o dimenticati a cominciare da Nietzsche e Camus, passando per Malraux e Rimbaud, Proust e Malaparte, Carl Schmitt e Jünger. Per non dire di Céline: «Il più grande e il più attuale - dirà Lévy - degli storici del Novecento, un secolo di cui egli è anche il sintomo e il rivelatore». In tutti i suoi libri - aggiunge ancora - Céline dà la precisa idea di un Occidente «grondante di orrori, di crimini, di massacri» e precorre al meglio i temi sulla massificazione degli individui, ridotti alla stregua di «folle e greggi istupidite».

Ma su tutti gli autori riscoperti c’è un nome che diventa fondamentale e definitivo per i “nuovi filosofi”, quello di Aleksandr Solgenitsin. «Ho imparato molto di più - annota Lévy in uno dei passaggi chiave de La barbarie dal volto umano - dalla lettura di Arcipelago Gulag che non da molte dotte glosse sui linguaggi totalitari. Devo più a Solgenitsin che non alla maggior parte dei sociologi, degli storici, dei filosofi che da trent’anni riflettono sul destino dell’Occidente. Enigma di questo testo che, appena scritto e pubblicato basta a far vacillare il nostro panorama e i nostri riferimenti ideologici». I nouveaux philosophes hanno il coraggio, insomma, di sollevare il “caso Solgenitsin”, il ritrattista dell’universo concentrazionario sotto la dittatura del partito unico, e celebrano uno scrittore sino ad allora ritenuto un “innominabile” e considerato reazionario perché antistalinista e anticomunista e che nel ’ 74 era partito, espulso dall’Unione sovietica, per un esilio americano di vent’anni tra le nevi del Vermont. «Ho amato - annoterà invece Lévy Solgenitsin. L’ho ammirato. Ho pensato grazie a lui. Attraverso lui. Ho scritto i miei libri di filosofia all’ombra della sua grande ombra. L’intera nouvelle philosophie non avrebbe verosimilmente avuto, senza di lui, la stessa esistenza. Ho financo detto un giorno che egli era una sorta di Dante del nostro tempo. E se l’ho detto è perché mi sembrava, mi sembra sempre, che nessuno avesse saputo descrivere come lui l’inferno del Gulag».

Sulla scia di ciò, un segnale forte dell’influenza del rovesciamento di segno rispetto al totalitarismo sovietico si ha nella primavera del ’ 77, quando i “nuovi filosofi” si fanno promotori di una manifestazione alla Mutualité di solidarietà ai dissidenti e alla vittime del sistema comunista in occasione della visita all’Eliseo del premier sovietico Leonid Breznev. L’ex maoista Glucksmann ottenne addirittura la partecipazione al “controricevimento” di personaggi del calibro di Eugène Ionesco e dei due grandi rivali ideologici, l’esistenzialista Jean- Paul Sartre e il liberale Raymond Aron. Era il segno definitivo di un cambio di sensibilità nella cultura politica, non solo francese. Qualcosa che si riverbererà in Italia, nell’autunno dello stesso anno, con l’edizione 1977 della Biennale di Venezia, quell’anno, su iniziativa di Carlo Ripa di Meana, dedicata proprio al dissenso all’Est.

Un’edizione che diede voce ai dissidenti nei confronti del regime comunista dell’Unione Sovietica, che consentì libertà di espressione a figure come Andrej Sacharov o Josif Brodskji, che evidenziò le prime crepe di quell’impero che si pensava monolitico, ma che fece segnare anche nella politica italiana una frattura che rischiò di far saltare l’allora governo Andreotti, quello del compromesso Dc-Pci, e di minare i rapporti con Mosca.

Naturale che i “nuovi filosofi” non ottennero grandi consensi sulla stampa e nella pubblicistica italiana. La casa editrice veneziana Marsilio, vicina ai socialisti craxiani, pubblica a settembre la traduzione italiana del manifesto scritto da Lévy: La barbarie dal volto umano. Ma sui giornali, tranne l’attenzione simpatetica da parte del Giornale nuovo di Indro Montanelli prevalgono più che altro toni di sufficienza, di scherno e di critica. Franco Berardi Bifo cura addirittura un saggio a più voci ( con interventi di Pierre Rival e Alain Guillerme) “contro i nouveax philosophes”: L’ideologia francese ( Squilibri Edizioni).

Roberto Calasso sul Corriere della Sera commenta: «È stata una moda anche l’esistenzialismo, è stata una moda anche Sartre». A sorpresa, ma non troppo, l’unico a schierarsi dalla loro parte senza se e senza ma è Leonardo Sciascia: «I nuovi filosofi - scrive - vengono dal maggio ’ 68 più direttamente, e più coerentemente, che non gli estremisti e i terroristi. Questi hanno reagito alla delusione ostinandosi ad andare avanti nello stesso senso, a bruciare e a bruciarsi: senza capire che dopo quella momentanea assenza il potere si sarebbe situato specularmente di fronte alla loro violenza, per restituirla in tutta tranquillità moltiplicata». Lèvy, Gluckmann e i loro sodali, invece, è l’osservazione dello scrittore siciliano, «se la sono presa con filosofia: e nel senso corrente dell’espressione, e nel senso di una rivendicazione del “pensare liberamente”…».

Quindi la conclusione in merito all’accoglienza nel nostro Paese di quella nuova onda intellettuale: «Sono portato a credere - concludeva - che in Italia le dighe del conformismo e del “compromesso” li fermeranno». Che abbia avuto o meno ragione Sciascia, il miglior giudizio sull’azione dei “nuovi filosofi” potrebbe invece essere rappresentato dalla dedica che il grande scrittore Romain Gary, ormai anziano, scrisse donando un suo libro all’autore de La barbarie dal volto umano dopo un incontro a lungo atteso il leader degli intellettuali dell’ultima generazione: «A Bernard- Henri Lévy, questo schizzo di letteratura contro il potere, per una cultura libera da tutti i punti di supremo arrivo e perché i nostri itinerari si congiungono, fraternamente».