RESPONSABILE UFFICIO STAMPA CISL

È uscito in questi giorni il libro Inchiesta Microcosmo Sicilia ( Rubbettino editore). Ne pubblichiamo due capitoli ringraziando l’autore.

1) IL TURISMO NON PORTA VOTI.

La Sicilia è una terra che va scoperta attraverso l’incontro con la sua gente, il girovagare tra paesi incontaminati, spesso appollaiati su montagne inaccessibili, ma tutti con chiese maestose, cortili eleganti, palazzi di pietra gialla, decorati da ignoti scalpellini, che si sgretolano per la crudeltà della natura e l’incuria dell’uomo.

Gomitoli di strade scoscese, in cui il tempo sembra essersi fermato, tra sedie e tavolini fuori dai portoni e panni stesi ad asciugare, mentre il profumo di paste, arancini, olive abbrustolite sulla brace si sposa, quasi si contamina, con quello dell’aria.

Sono davvero tanti, belli e diversi i borghi di Sicilia. Andrebbero visitati tutti, uno per uno. Sono fucine di civiltà, approdi di popoli e storie, luoghi incantevoli, sulle colline o sul mare, dove si possono gustare piatti semplici ma con un sapore unico, frutto di antiche ricette del mondo contadino o della consuetudine dei pescatori siciliani, fermandosi ad ammirare il paesaggio che intride di sé uomini, comunità, città e cose. Queste possono sembrare frasi retoriche. Da depliant turistico. Non è un caso se in sei edizioni del Concorso “I borghi più belli d’Italia” ben quattro sono stati i paesi vincitori siciliani: Petralia Sottana, Gangi, Montalbano Elicona e Sambuca di Sicilia. Senza contare Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, penalizzata nel 2019 dal voto della giuria ( di parte) dello stesso concorso dopo aver stravinto al televoto. Eppure in Sicilia il turismo dà lavoro solo a circa centomila persone su un totale di occupati che si aggira attorno a un milione e mezzo di lavoratori. Ogni anno migliaia di giovani siciliani vanno a fare i mestieri più umili e faticosi in Inghilterra, lavorano negli alberghi francesi o degli Emirati Arabi, i cuochi più bravi sono emigrati in America, in Russia, in Cina, persino in Sud Africa. Tutti, a parole, a decantare le grandi opportunità turistiche della Sicilia, salvo poi scoprire i luoghi più belli dell’isola selvaggiamente distrutti dalla speculazione, dalla incompetenza, con uno sperpero di denaro incredibile, ignoranza, malafede.

Chi volete che venga a investire in Sicilia in queste condizioni? Palazzi storici circondati da palazzine in totale abbandono che cadono a pezzi, autostrade incomplete da 50 anni ed in uno stato pietoso, ponti che crollano, spazzatura ovunque, con l’ 89% dei quasi 1.500 chilometri della rete ferroviaria a binario unico, i convogli sulla linea Siracusa- Catania Messina più lenti che in passato, le 429 corse regionali contro le 2.396 della Lombardia e i treni con un’età media di 19,2 anni contro i 13,3 del Nord. Cosa sognano i turisti italiani e soprattutto stranieri di trovare nella loro vacanza in Sicilia? Il turista chiede solo cose civili che un Paese civile dovrebbe essere in condizione di poter garantire. Anzitutto delle autostrade comode e sicure, ferrovie veloci, approdi sicuri per le navi o gli aerei. E poi alberghi comodi, mare senza inquinanti o veleni, spettacoli, legalità. Lo Stato, la Regione, i Comuni, la politica hanno saputo garantire tutto questo in Sicilia? La risposta purtroppo è no. Il turismo non porta voti. E chi campa di voti in Sicilia l’ha capito bene da un pezzo. E questo vale anche per la nuova classe dirigente dell’isola. Abbiamo permesso la distruzione delle riviere negli angoli più belli dell’isola, a Fontane Bianche, lungo la spiaggia catanese fino ad Agnone, sulla costa di Tindari, sugli arenili a sud di Ragusa e Agrigento. Basta un alito di vento o un filo di corrente perché nei golfi più affascinanti del Mediterraneo, a Mazzarò, Letojanni, Isola Bella, Giardini Naxos, arrivino migliaia di sacchetti di plastica, bottiglie, immondizie. Ma anche arrivare in Sicilia resta un problema: l’alta velocità ferroviaria si ferma a Salerno, le tariffe aeree sono sempre più elevate, i treni locali e i prezzi dei pernottamenti non sono concorrenziali. Chi arriva in auto, sullo stretto di Messina, subisce nel mese di agosto ancora alcune ore di attesa estenuante per il traghetto, con le file che cominciano ben prima del casello di Villa San Giovanni. Molte spiagge sono devastate, sporche, spesso abbandonate ai teppisti. Abbiamo 1.039 chilometri di costa, una varietà di insenature e golfi che non hanno eguali in tutto il Mediterraneo e per metà abbiamo coperto il panorama di costruzioni ignobili, villette miserabili, baracche, condomini, molti dei quali costruiti persino su aree demaniali. Un’occasione persa per migliaia di giovani siciliani che invece di emigrare in Germania, Belgio, Canada, Australia, avrebbero potuto trovare un loro percorso di lavoro e di crescita nell’isola. Parliamo di tante opere pubbliche mai realizzate che avrebbero potuto servire gli esercizi turistici, il commercio, l’agricoltura, la ristorazione e accrescere il livello civile e sociale della popolazione. Il turismo avrebbe potuto essere, insomma, l’attività fondamentale dell’economia siciliana. Eppure per decenni è rimasto un baraccone sconnesso. Enti dai nomi strani, aziende fallite, pro loco come condomini, comitati organizzatori bizzarri, una folla di istituzioni e di iniziative che a loro volta pullulano di dirigenti, impiegati, segretarie, autisti, uscieri, la maggior parte dei quali non sapevano cosa fare e come si potesse trattenere un turista in zona. Prima dell’esplosione del Covid in Sicilia ci sono stati in media ogni anno circa 5 milioni di arrivi. Calcolando che un turista spende fra vitto, alloggio, viaggio, escursioni, una media di 300 euro al giorno, significa un incasso di circa 2 miliardi l’anno. Sono soldi che oggi servono praticamente a far sopravvivere l’isola. Ma questo non basta. Si potrebbero fare molti più introiti, più sviluppo complessivo, redistribuire più ricchezza. Da anni si ripete un ritornello avvilente al quale danno voce molti politici. «La Sicilia, prima regione in Italia, al pari della Lombardia, per numero di siti Patrimonio Unesco ( sono nove), potrebbe vivere di solo turi- smo, soprattutto culturale». Bellissimo slogan. Peccato che sia solo un sogno che nasconde una deludente realtà: l’antico, inarrestabile degrado rappresentato in modo evidente dai 300 luoghi d’arte dell’isola sempre sbarrati, negati al turismo. Palazzi storici, giardini, aree archeologiche, tutti inaccessibili.

Difficile visitare anche i musei “aperti”. Perfino i più importanti, come Palazzo Abatellis di Palermo, riducono l’orario proprio nei giorni festivi: una regola avvilente che riguarda, in realtà, anche buona parte dei musei italiani. Come ha ben documentato «Il Giornale dell’Arte. com» nell’elenco impressionante delle 868 opere “incompiute” in tutta l’isola, in restauro a passo di lumaca o a lavori bloccati senza un perché, un numero cospicuo riguarda proprio il patrimonio culturale siciliano invisibile. Incredibile ma vero. A queste realtà si aggiungono le tante aree archeologiche inaccessibili ( il 30%, distribuite in tutta la Sicilia), perché abbandonate e chiuse o da anni in perpetuo restauro. Oltre la metà di tutti i musei e siti archeologici siciliani non sono accessibili ai portatori di handicap: barriere architettoniche, montascale fuori uso, carenza di ascensori. Perfino la celeberrima Villa Romana del Casale a Piazza Armerina, sito Unesco dal 1997, non ha ancora un percorso completo per i disabili. E pare davvero inconcepibile che al Teatro Greco di Siracusa un portatore di handicap debba «chiedere la chiave all’ingresso o al custode» per andare alla lontana toilette. È pur vero che il turismo culturale in Sicilia è cresciuto del 9,37% negli ultimi due anni. Ma se consideriamo i dati delle presenze nei 77 siti culturali regionali siciliani siamo ben lontani dalle presenze in altre località blasonate come Pompei, il Museo Egizio di Torino o la Galleria degli Uffizi di Firenze. Il problema in Sicilia non sono tanto i siti archeologici più famosi anche all’estero, come la Valle dei Templi di Agrigento, il Teatro antico di Taormina, le aree archeologiche di Siracusa, Selinunte, Segesta. Il problema è che non cresce o diminuisce, invece, la frequentazione dei musei, che sono vittime di scarsa cura e di una promozione e valorizzazione inadeguate. Per mancanza di quei servizi indispensabili, non si riesce a portare il turista in tante altre grandi e piccole località siciliane che meritano il giusto interesse. Sono ritardi storici, frutto di scelte sbagliate, omissioni, ruberie. Le spiagge e le bellezze della Tunisia, del Marocco o dell’ Egitto costano meno delle eccellenze dei nove siti Unesco siciliani e delle tante altre meraviglie trascurate dell’isola. La realtà purtroppo è questa. Una verità che fa molto male, soprattutto agli stessi siciliani. Tutti i parametri economici e sociali in Sicilia oggi hanno il segno meno. E il Covid ha peggiorato questo quadro già barcollante. Persino Federico di Svevia, l’antico, orgoglioso Re di Sicilia, oggi, forse, non pronuncerebbe più la famosa frase: «Non invidio a Dio il Paradiso, perché sono ben soddisfatto di vivere in Sicilia».

2) LA SANITÀ MALATA

In Sicilia ci sono circa una sessantina di cliniche, ville lussuose come hotel dai nomi più fantasiosi, tutte convenzionate con la regione siciliana: centri ipertecnologici, specializzati in cardiologia, cardiochirurgia, neurologia, onco- logia, pediatria, dove le prestazioni costano in media il triplo del prezzo del mercato, come hanno denunciato più volte i sindacati dei medici. La gran parte di esse fanno quello che in un Paese normale fanno gli ospedali pubblici, ma sono di proprietà di mogli, figli e parenti di politici siciliani. Ma non pensate che gli standard di qualità siano sempre all’altezza. Si muore anche in queste strutture. Come accadde qualche anno fa a Paolina, una donna siciliana come tante che viveva solo per le sue figlie e per i suoi nipoti. Con una pazienza infinita e una pace interiore che cercava di trasmettere anche agli altri. Senza lamentarsi di nulla. Come una vera cristiana. Conoscete la favola di Solomon Grundy, nato di lunedì e sepolto di domenica? Paolina era andata all’ospedale di Avola una mattina per una banale operazione di cataratta. Poi gli esami di routine avevano evidenziato un problema al suo cuore. Aveva bisogno di un pacemaker, uno stimolatore a pile per regolare il ritmo cardiaco. Ma i tempi erano lunghi. Il giorno dopo si è ricoverata a Siracusa in una clinica convenzionata della Regione, con un nome che sembrava uscito da un depliant sul mare siciliano. In apparenza sembrava un albergo a cinque stelle. Tutto appariva perfetto, lindo, funzionale. Ma durante l’intervento alcuni medici forse incauti le hanno sfondato due polmoni, cercando, inutilmente, di inserire il catetere del pacemaker nelle vene sotto la clavicola. Quella villa è diventata improvvisamente un luogo grigio, torbido, maledetto. Il giorno dopo Paolina è stata trasportata d’urgenza in un’altra clinica, a Pedara. Anche questa era una struttura famosa, moderna, convenzionata con il servizio pubblico. Ma i medici hanno sbagliato ancora una volta: hanno “bucato” il ventricolo di quella povera donna proprio con la punta del catetere inserito stavolta attraverso la vena femorale. Dopo due ore, gli stessi medici l’hanno operata a cuore aperto per cercare di suturare il ventricolo e tamponare l’emorragia. A quel punto il fisico di Paolina, così debilitato, non ha retto. Tutto si è compiuto in meno di una settimana. Paolina è volata via, come una piccola rondine, indifesa e ferita nel proprio nido.

Una storia tragica, anch’essa emblematica. Una delle tante nel nostro Paese, di cui spesso i giornali si occupano per un giorno con grandi titoloni, ma poi vengono dimenticate da tutti. Non è un processo ai medici ed agli operatori sanitari. Tutt’altro. In Sicilia, come nel resto del Paese, abbiamo medici molto preparati che fanno, insieme a migliaia di infermieri, un lavoro ammirevole, in condizioni organizzative, lavorative e salariali, davvero avvilenti. Abbiamo i migliori professori universitari del mondo, tanti bravi ricercatori che vanno e vengono dai congressi internazionali, con migliaia di pubblicazioni e riconoscimenti importanti. Tuttavia, ogni anno, vengono istruite circa 300 mila cause contro medici e strutture sanitarie, pubbliche e private, per errori commessi ai danni di un paziente. Il 44,5 per cento avviene nel Sud e nelle isole. Ma questa sanità “malata” non è una patologia da addebitare a chi esercita con professionalità, sacrificio e senso di responsabilità. È dovuta alla carenza di personale, alla precarietà di migliaia di medici, ai pochi concorsi e quasi tutti pilotati, ai ritmi frenetici, a volte insostenibili delle sale operatorie, dei pronto soccorso, delle terapie d’urgenza. È dovuta ai tagli, agli sprechi, alle ruberie, agli scarsi investimenti pubblici. Il caso siciliano fa scuola. Per mantenere il lustro di tante strutture semi- pubbliche la Regione Sicilia accumula ogni anno un debito di circa 450 milioni di euro. Una cifra colossale e in costante aumento, che per il 42% grava esclusivamente sulle casse della stessa regione e per la restante parte viene scaricato sul bilancio dello Stato. Una valanga di soldi che potrebbe essere utilizzata per assumere più medici e infermieri negli ospedali pubblici, nelle guardie mediche, per accorciare le liste d’attesa. Il principio che regola il business è che gli imprenditori privati convenzionati ricevono lo stesso rimborso di un ospedale pubblico. Il che ci può stare per gli ospedali privati convenzionati che hanno il servizio di Pronto Soccorso o che curano malattie gravi. Il problema è che lo stesso principio vale anche per le piccole cliniche e una miriade di centri ambulatoriali convenzionati che fanno risonanze, tac ed ecografie, esami del sangue dalla mattina alla sera, senza offrire nessun altro servizio. Anche i costi della spesa farmaceutica, frutto della “spensieratezza” dei medici di famiglia, sono diventati una voragine. Insomma si tratta di una spesa sanitaria incontrollata che ogni anno aumenta, grazie alla pseudo- liberalizzazione del mercato sanitario. I buchi nei bilanci vengono affrontati solo tagliando il personale e i posti letto, come è accaduto nel 2019, a cinque ospedali siciliani: Civico, Villa Sofia- Cervello, i policlinici di Palermo e Catania, e il Papardo di Messina. Ma i privati, invece, vanno a gonfie vele. La regione siciliana è come una mamma: non sa dire di no a nessuno dei propri figli. Perché si dovrebbe rifiutare la “convenzione” a quella struttura, a discapito di un’altra? I siciliani non sono un popolo democratico e solidale? Dunque, convenzioni della Regione per tutti gli amici degli amici, quasi sempre imprenditori privati accreditati con il servizio sanitario senza alcuna gara, nessun controllo sulle prestazioni. Profitti di milioni di euro che poi vengono investiti in attività finanziarie, immobiliari, Spa e Resort. Un furto legalizzato alle casse pubbliche. Il risultato è che a farne le spese sono i piccoli ospedali zonali di provincia, sorti quasi tutti alla fine degli anni ’ 70, i quali invece di essere soppressi vengono lentamente trasformati in poliambulatori.

Strutture fatiscenti, da terzo mondo. I medici più bravi e preparati scappano via nelle cliniche convenzionate, e la gente a sua volta scappa via da questi piccoli ospedali pubblici perché ha paura anche a farsi fare una iniezione. È un cane che si morde la coda. Meglio percorrere qualche chilometro in più e recarsi in un ospedale, si spera, più attrezzato, oppure in una clinica convenzionata linda e profumata. Sempre che si faccia in tempo.

L’ASP EFFETTUA I TAMPONI NEL PORTO DI PALERMO

FRANCESCO MILITELLO MIRTO