Jodie Foster alla regia ci offre un thriller emozionante e serrato, che su uno schema narrativo e visivo molto classico, attacca frontalmente il mondo della comunicazione e dell’economia. E il loro rapporto incestuoso.Jodie Foster non si fa problemi, da sempre, a entrare a gamba tesa negli stereotipi. Lo capimmo in Taxi Driver: quanti a quell’età avrebbero affrontato, con quella potenza e talento, il ruolo di Iris? Ora a 40 anni di distanza, nella sua nuova prova di regia continua a farlo. E come da interprete, mestiere che ha fatto con bravura incredibile e che ora sembra annoiarla, non si accontenta mai di un solo sguardo, di un’intuizione, ma vuole andare a fondo. Della depressione, come in Mr. Beaver, che regalò l’ultimo vero grande ruolo a quel matto geniale di Mel Gibson, uno sconfitto, eroso dai suoi demoni ma nelle mani della bionda cineasta ancora mattatore, dell’economia nell’era della comunicazione totale, invadente e manipolatrice (ma anche viceversa) in Money Monster-L’altra faccia del denaro (nelle sale italiane da ieri). A Cannes, dove abbastanza inspiegabilmente ha trovato posto solo fuori concorso, ha diviso equamente gli applausi con un George Clooney ottimo a giocare con il suo istrionismo, per poi andare in sottrazione quando il suo Lee Gates deve combattere con la paura, e una Julia Roberts che invecchiando diventa più bella e capace di dominare quel carisma naturale che si ritrova e che ora, con l’esperienza, domina in ogni dettaglio.Money Monster non è un capolavoro, è un’opera solida, che usa schemi classici per raccontarci, con una storia alla John Q, l’economia dell’Occupy Wall Street. Dopo tante pellicole che ci hanno detto quando e quanto ci hanno imbrogliato, dopo altre che ci hanno mostrato come ci hanno ingannato, ecco che si cominciano a raccontare vittime e carnefici. Meglio se chiusi dentro uno studio televisivo – economia e comunicazione hanno da sempre un rapporto incestuoso: si pensi ai patti di sindacato o alle proprietà dei nostri quotidiani più letti -: in diretta, dentro milioni di televisioni, il cialtrone Lee Gates (Clooney) con pagliacciate da avanspettacolo, effetti speciali alla buona e un’oratoria da piazzista di alto livello dispensa consigli con la stessa superficialità con cui questi anni di crisi di valori, economici e professionali, hanno bruciato miliardi di dollari, euro, yen, valute intercambiabili nello scacchiere di un capitalismo truccato. Se La grande scommessa cercava di farci entrare nella complessità della trappola, Jodie Foster, attrice cara agli autori ma anche alle major, raffinata e popolare, capisce che deve fare il contrario. Rompere il velo dell’incomprensibilità, dire agli spettatori che è tutto talmente facile da essere elementare. Che spread o glitch sono parole passepartout per rendere, in ricchezza e povertà, in bolle speculative e in crisi senza fine, totalmente inaccessibile l’economia a chi investe i soldi veri. Eredità, fondi pensioni, risparmi di una vita.E invece no: se uno dei servi sciocchi del sistema si ritrova con una pistola alla testa e un gilet pieno di esplosivo addosso può scoprire di non essere né così servo, né così sciocco. E magari, per una volta, per salvarsi la vita e forse non solo quella, cercherà la verità. Capire le contraddizioni della sua materia e del paese che ne fa il cemento ormai disarmato delle proprie certezze.Jodie Foster fa questo, con un lavoro che sembra uscire dagli anni ’70 per ritmi e soluzioni di regia, scovando un registro narrativo molto efficace, che alterna il grottesco al dramma. Perché lei sa che ormai questo mondo si sta lanciando a tutta velocità verso la rovina e che sa essere terribilmente ridicolo nel farlo. Si sorride, nella tensione. Perché Clooney neanche di fronte al rischio estremo rinuncia a giocare i suoi bluff, a recitare una parte. Il capitalismo è questo, e la Foster che tra i tanti talenti ha anche il gestire i suoi beni come una manager d’alto livello, lo sa bene: è un teatro, anzi un teatrino di pupi. In cui son tutti o quasi burattini in un Risiko che può unire uno studio televisivo a un incorruttibile sindacalista sudafricano. E nel mondo in Rete e del denaro digitale, il butterfly effect può diventare uno tsunami.Si perde Money Monster solo verso la fine. Quando Foster non si rende conto che la forza del lungometraggio sta proprio nel suo non prendersi sul serio mentre apre una voragine nelle nostre coscienze (e conoscenze). Lì, in quel Clooney che mette su la faccia da buono, si perde di credibilità, il pubblico, troppo disincantato dalle disavventure che vive quotidianamente, non segue i due protagonisti, anzi tre, ridotti a figurine (Walt Camby, il cattivo, forse andava lasciato fuori: Dominic West non sa consegnarli la squallida mediocrità che merita). E si rifugia allora nelle interpretazioni femminili, più umane e reali: Diane Lester (Caitriona Balfe), donna doppiamente ingannata, Patty Fenn (Julia Roberts) che ha l’umiltà di cavalcare ciò che sa fare meglio e di volgerlo al meglio, Emily Meade che con una sola scena dà la cifra del film e buca lo schermo.E alla fine capisci solo una cosa: neanche il video può uccidere le star di Wall Street. Chi nasce vittima, non morirà carnefice. Perché non vuole vendetta, ma giustizia.