«Baciare Marilyn Monroe è come baciare Adolf Hitler». Tony Curtis si è sempre pentito di quella frase sciagurata; giura di averlo fatto per scoramento, per i capricci e le continue intemperanze dell’attrice sul set di Some like it hot.

Curtis, che poi con Marilyn intrecciò una storia clandestina, non poteva ancora saperlo, ma da un certo punto di vista aveva ragione: se Hitler è l’uomo più celebre del ventesimo secolo, Marilyn è senza alcun dubbio la donna più famosa.

Non è stata la popolarità a sopraffarla, ma l’odio, l’invidia, la cattiveria delle persone che ha incontrato e la ferocia del sistema in cui ha vissuto. Nella drammatica parabola di Norma Jean Baker, nel suo rapporto con la gloria, con il cinismo degli intellettuali e le bassezze della politica si intravede in filigrana la perdita dell’innocenza di un’intera nazione, ma anche la nascita di una nuova consapevolezza, di una nuova cognizione del dolore. A cinquantacinque anni dalla morte il mito resiste intatto e luminoso come le piramidi d’Egitto. Ma farlo per diventare tale, Norma Jean è stata smembrata, fatta a pezzi dalla stessa macchina che l’ha partorita e celebrata. La sua storia umana è la storia di una implacabile spoliazione.

Negli anni 40 l’America si accorge di una modella sensuale e «ad alto voltaggio» : la sua fama è già grande ma ancora circoscritta all’immaginario da cartolina, la pin- up che occhieggia dai calendari dei soldati al fronte, l’estetica del balletto nautico californiano, le forme sane e burrose, un’Afrodite del new deal, simbolo dell’abbondanza economica e dell’ottimismo.

Provocante ma non perturbante, un peccato virtuale accessibile a tutti, che le pazienti mogli della grande provincia americana possono in fondo perdonare ai propri, sognanti, consorti. Un panorama di villini immersi nel verde, bottiglie del latte lasciate davanti alla porta, scoiattoli appollaiati sulla cassetta delle lettere; paradiso familiare rassicurante in cui il “mal di vivere” è un pensiero rimosso che fa sfiorire le ambizioni tra effluvi di torte alla carota e pile di piatti lavati a mano. Ma che per contrasto permette di trovare la strada per l’emancipazione, la “Revolutionary Road” tratteggiata dallo scrittore Richard Yeats nel suo capolavoro del 1961. Il mondo della finzione però è più schematico della realtà e Marilyn è ancora imprigionata nel suo stereotipo di bionda pneumatica, dal sorriso bianco come il latte e dalle curve paraboliche.

È il controcanto della donna virago e castratrice interpretata da signore cupe e intense, femmine dai lineamenti espressionisti, volti un po’ infidi, segnati dalle occhiaie e dalle ombre, come Bette Davis, Joan Crawford o Barbara Stanwick. Sono i due estremi della misoginia d’oltreoceano, perfettamente speculari tra loro ed entrambi funzionali all’idea che la donna sia in fondo un binomio semplice: o una perfida calcolatrice o una frivola senza cervello «che si beve facilmente, come una birra ghiacciata», esilarante nella sua stupida incoscienza. Il matrimonio con la star degli Yankee’s Joe Di Maggio è poi una favola pop che fa vibrare la nazione. Lo sportivo figlio di immigrati italiani è il prototipo dell’americano medio: bravo cristiano, bravo patriota, divoratore di film western e di T- bone, lontano anni luce dalle sofisticherie esangui dei ceti medi riflessivi ( siamo in pieno maccartismo). La loro unione, pubblicizzata dai media come quella di un re e di una regina di altri tempi durerà appena otto mesi. Marilyn è oggetto della concupiscenza popolare, la gelosia di Di Maggio è una malattia ossessiva la coppia frana in una rapida quanto inevitabile rottura.

La consacrazione del grande schermo accelera lo smembramento di Norma Jean. Quando Marilyn diventa un ingranaggio della macchina hollywoodiana, benzina della mirabolante fabbrica dei sogni, inizia l’inesorabile trasfigurazione. A partire dal fisico: sarà sottoposta a diversi interventi di chirurgia estetica, la curva del naso viene addolcita, l’angolo della mascella arrotondato e riempito di silicone, la capigliatura ora è platinoscintillante grazie all’acqua ossigenata a 80 volumi che dovrà usare ogni tre giorni per il resto della vita. Il corpo, il suo corpo è un campo di battaglia e di sperimentazione in mano a quelle “gang”, come lo storico del cinema George Sodoul definiva i grandi padroni degli studios, che la sfrutteranno e la manipoleranno senza scrupoli. Sembra un compromesso accettabile. Per lei, nata durante la Grande depressione e che quando aveva 18 anni lavorava come operaia impacchettatrice in una fabbrica di paracaduti, Hollywood ha rappresentato una formidabile occasione di ascesa sociale. Una biografia che alimenta la mitologia del sogno americano intrecciandola con la favola di Cenerentola ( il cartoon della Disney usciva proprio in quegli anni). Ma Norma Jean si sente soffocare dall’immagine di Marilyn, non vuole più essere il punto di incontro del desiderio del maschio americano medio e della propaganda patriottica, vuole guardare un po’ fuori da quel mondo di stelle posticce, vuole inseguire una strada tutta sua, più complicata. Subisce oltre misura il fascino degli intellettuali, intende dimostrare al mondo che lei non è una dump blonde, ma una persona intelligente e sensibile, una donna che ama la cultura, la letteratura, la musica che ammalia e si lascia ammaliare dai suoi rapsodi che ora la ergono a musa ispiratrice della propria arte, o del proprio narcisismo cannibale.

«Sono multipla» disse una volta durante un’intervista parafrasando Walt Withman, il padre della poesia moderna americana, con una tenerezza tragica, che ricorda la Elide Catenacci- Giovanna Ralli di C’eravamo tanto amati, figlia di un palazzinaro cafone che tenta di affrancarsi sposando Vittorio Gassman, cinico intellettuale comunista, il quale denigrerà tutti i suoi sforzi, fino a lasciarla sola, depressa e suicida. Marilyn si iscrive all’Actor Studio di New York per scrollarsi di dosso la nomea di attricetta leggera e “ad elevato contenuto calorico”, rifiuta le parti tagliate su misura, vuole identificarsi con i suoi personaggi, «viverli dal di dentro» come impone la maieutica di Stanislawski. La critica colta, che le preferisce nettamente Liz Taylor, non è mai stata generosa verso la sua recitazione, riducendo i suoi successi alla «carica sensuale» o alla maestrìa dei registi che l’hanno diretta. Lo stesso Billy Wilder, il geniale Billy Wilder, usa parole sprezzanti nei suoi confronti: «La sua forza sullo schermo è che non è capace a recitare». Ma si sa, i grandi artisti sono spesso delle persone basse e rancorose.

Il matrimonio con lo scrittore e commediografo Arthur Miller, segna il passaggio nel dorato ( si fa per dire) mondo dell’intelligentsia liberal: «Se fossi una cretina non mi avrebbe sposata», si giustifica con disarmante sincerità in un’intervista. In pochi però la prendono sul serio. Ora però frequenta i cenacoli dell’avanguardia newyorchese, conosce gli artisti europei, legge James Joyce, si interessa alla psicoanalisi, alla poesia, si concede una fuitina con l’attore francese Yves Montand conosciuto sul set di Let’s make Love ( 1960) di George Cukor. Ma per il sistema mediatico Marilyn rimane sempre e comunque la Venere bionda che fa ingrifare il popolo: «Il matrimonio tra Monroe e Miller? È l’unione tra i più alti rappresentanti della carne e dello spirito», ironizza velenoso il New York Post.

Nessuno le concede la possibilità di liberarsi da quell’asfissiante immagine pubblica. Al limite le incollano addosso un altro insopportabile stereotipo riservato alle donne: quello dell’isterica traumatizzata da un’infanzia difficile e assediata da ataviche nevrosi.

Nella mistica freudiana che domina il clima culturale dell’epoca ( alla fine degli anni 50 oltre 300mila giovani donne sono internate nei manicomi americani) una pioggia di nuovi cliché si abbatte su Norma Jean. Stavolta vanno a rovistare nel cassonetto dei ricordi, a smuovere complessi sepolti o a riaprire ferite dolorose: la madre alcolizzata, il padre assente, l’affidamento a una casa famiglia, i fidanzati maneschi, è tutto uno scavare morboso e indecente nella sua vita privata da parte della stampa scandalistica.

Gli aborti spontanei diventano così il sintomo psicosomatico del suo malessere esistenziale, come la dipendenza dagli psicofarmaci, l’abuso di alcool, le droghe, gli attacchi di panico, le lunghe depressioni.

Il contatto con gli ambienti della politica e del potere le darà poi il colpo di grazia. I flirt che le attribuiscono con i rampolli della famiglia Kennedy, in particolare con il presidente J. F. K. alimentano rumori e dicerie devastanti, il suo corpo, la sua persona diventano ostaggio del potere. La relazione è allo stesso tempo segreta e totalmente pubblica, Marilyn viene “attenzionata” dalla Cia e dal Fbi, a Washington la considerano «pericolosa». L’ultima apparizione il 19 maggio del 1962 sul palco del Madison Square Garden mentre sussurra « happy birthday mister president » è un malinconico addio.

Jackie Kennedy pone l’ultimatum al marito: se quella bionda non sparisce per sempre dalla sua vita lei chiederà il divorzio. La donna più celebre del pianeta è ormai una persona sola e senza amici, odiata e reietta muore tre mesi dopo per un’overdose di sonniferi nel suo appartamento di Los Angeles, al 12305 di Fifth Helena Drive. La governante Eunice Murray la trova riversa sul letto senza vita.

Hollywood le aveva sequestrato il corpo, ma l’infelicità Norma Jean Baker l’ha incontrata con gli intellettuali e gli uomini di potere.