Il “caso Majorana”, cioè quello relativo alle circostanze mai chiarite della scomparsa nel 1938, a poco più di trentuno anni, del precoce e geniale fisico italiano, è stato con buona evidenza creato ad arte da lui stesso. Che si sia suicidato o meno, quello che è sicuro è che egli ha non solo voluto far perdere le sue tracce ma anche voluto depistare coloro che si sarebbero messi a cercarle. I quali, alla fine, hanno potuto escogitare solo interpretazioni, tutte ugualmente improbabili, nel senso etimologico del termine, cioè non corroborabili da “prove”.

Rispetto a questa loro improbabilità metafisica, diciamo così, che esse siano più o meno plausibili poco importa. Anche perché la plausibilità richiama a un ordine di discorso, quello del senso comune o del “buon senso”, di cui, per detta di Enrico Fermi ( che pure lo aveva paragonato a Galilei e a Newton per acutezza di ingegno), il nostro era sostanzialmente sprovvisto. Le interpretazioni del “caso Majorana” vanno perciò giudicate non per quello che ci dicono su di esso ma per quello che dicono di loro stesse. E, attraverso di loro, della realtà a cui inevitabilmente richiamano. Letta in quest’ottica, la tesi che ora avanza Giorgio Agamben è suggestiva e ha un valore intrinseco, come già quella precedente che Leonardo Sciascia aveva affidato, nel 1976, al suo bel libro intitolato proprio La scom- parsa di Majorana, ( 1975). Un valore indipendente da un riscontro “fattuale” e “oggettivo” che è ora veramente difficile anche solo immaginare. Essa, al pari di quella di Sciascia, di cui in qualche senso può essere considerata una estensione e precisazione, muove da un tratto della personalità di Majorana, ma ha il pregio di porci di fronte non alle sue inquietudini esistenziali ma al senso ontologico della sua ricerca scientifica: privilegia, in sostanza, non gli aspetti psicologici dell’uomo ma l’oggetto della sua ricerca e della sua dedizione di vita. Un’interpretazione tanto più suggestiva, in quanto è evidente che essa presuppone, attraverso l’architettata scomparsa, una messa in gioco ancora più radicale della sua vita da parte dello scienziato. Rispetto ad altre prove più convenzionali e prevedibili di Agamben, quesa ultima, un vero esercizio o saggio di “ontologia pura”, mi sembra perciò più interessante e da consigliare vivamente al lettore: Che cos’è il reale? La scomparsa di Majorana ( Neri Pozza, pp. 78, euro 12,50). È un volume fra l’altro che ha il pregio di riproporre, in appendice, il significativo e poco conosciuto saggio postumo di Majorana intitolato: Il valore delle leggi statistiche nella Fisica e nelle Scienze sociali.

Il saggio, che è in effetti come vedremo al centro dell’interpretazione di Agamben, fu scritto nel periodo più tormentato della breve esistenza del fisico siciliano, quello in cui, chiuso in una sorta di “esaurimento nervoso”, si abbandonò per lo più in solitudine ai suoi studi e alla stesura di testi mai pubblicati: l’arco di tempo compreso fra il ritorno dal viaggio di studio in Germania e Danimarca l’inizio dell’insegnamento di Fisica teorica all’Università di Napoli, nel gennaio 1938. Prima di concentrarci sulla scomparsa, conviene forse dire qualcosa su di lui.

Era nato a Catania il 5 agosto 1906, ma aveva studiato a Roma al “Massimo”, cioè presso i Gesuiti. Diplomatosi al “Tasso”, frequentò prima Ingegneria e passò poi a Fisica dopo un incontro con Enrico Fermi. Frequentò per quasi due anni l’Istituto di via Panisperna diretto da quest’ultimo, fino a laurearsi, il 6 luglio 1929, con una tesi su “La teoria quantistica dei nuclei radioattivi”. Anche se i suoi interessi scientifici combaciavano con quelli del gruppo di via Panisperna, Majorana non si integrò mai pienamente: sia per il suo carattere scontroso e solitario, sia per il rapporto paritario che subito stabilì con Fermi. Sicuramente, era nel gruppo quello con una marcia in più. Tanto che Fermi, che comunque giudicava straordinarie le sue qualità scientifiche, gli fece vincere una borsa di studio del Cnr per recarsi per sei mesi, all’inizio del 1933, a Lipsia da Werner Heisenberg e a Copenaghen da Niels Bohr. Con Heisenberg soprattutto instaurò un ottimo rapporto umano e soprattutto scientifico, tanto che il fisico tedesco manifestò pubblicamente la sua grande stima per il giovane italiano. Ritornato in agosto in Italia, egli si rinchiuse in casa a studiare in maniera ossessiva e a scrivere appunti che non ci sono giunti e che probabilmente distrusse. Frequentò sempre meno l’Istitito di via Panisperna e gli fu diagnosticato persino un “esaurimento nervoso”.

La sorella gli senti dire più volte che la fisica si era incamminata su una strada sbagliata. All’inizio del 1938, dopo aver rifiutato prestigiose cattedre all’estero, accetta quella “per chiara fama” che gli viene offerta a Napoli ( Majorana si era presentato per dispetto ad un concorso di fisica ove avrebbe scombussolato con la sua presenza i giochi accademici “orchestrati” da Fermi eliminando di fatto il figlio di Gentile dalla terna dei vincitori: da qui l’escamotage ministeriale della “chiara fama”). Trasferitosi nella città partenopea, egli visse in un albergo, pur rassicurando i genitori che avrebbe cercato un appartamento ( ma in verità avrebbe pure potuto restare a Roma essendo impegnato all’Università solo due giorni a settimana). Si legò in amicizia a Antonio Carelli, professore di Fisica sperimentale e direttore del dipartimento. Decisosi a prendersi una breve vacanza, dopo aver ritirato una somma considerevole in banca e il passaporto, decide di andare a Palermo.

Prende il traghetto delle 22,30 la sera del 27 marzo 1938 e da quel momento scompare, non senza avere scritto a Carelli e ai familiari due lettere di addio lo stesso giorno della sua partenza e averne spedita da Palermo una terza che sconfessava le prime due e preannunciava il suo ritorno il giorno dopo ( quest’ultima l’aveva fatta precedere da un telegramma “rassicurante”). Da allora nessuno più ha visto o ritrovato il corpo del fisico siciliano. E da allora si sono via via intensificate le tesi sulla sua misteriosa scomparsa.

Perché non fermarsi alla tesi del suicidio, che soprattutto nella lettera alla famiglia sembra molto chiara, mentre nella prima a Carelli si parla genericamente di “scomparsa”?

È vero che la seconda lettera a Carelli, spedita da Palermo, palesa un ripensamento, ma potrebbe ben darsi che, combattuto fino all’ultimo, sia di nuovo ritornato alla decisione iniziale. Il fatto è che, non solo il corpo non si è trovato, ma le due lettere a Carelli sono davvero di un’ambiguità e criticità notevole, con una scelta di parole che sicuramente non può essere stata casuale. Un dire e un non dire ove è impossibile capire ove è la “verità”, ammesso e non concesso che in esse ne esiste una e solo una.

Come sempre in questi casi, si è fatto così riferimento, fino ai giorni nostri, a tesi plausibili o meno, complottistiche e persino bizzarre, che in questa sede non vale nemmeno la pena di ricordare. Tranne, ovviamente, quella avanzata Sciascia: l’ipotesi che alla base della sua scomparsa potessero esserci motivazioni di ordine morale legate alla intuizione dei catastrofici sviluppi che gli studi della fisica contemporanea, e anche i suoi, avrebbero potuto avere ( e che in effetti ebbero poco dopo), mercé la scissione dell’atomo e la realizzazione dell’arma nucleare.

Comunque lo si giudichi, compresa l’ipotesi “metafisica” finale di un ritiro di Majorana in un convento di certosini in Calabria, il libro di Sciascia è un’opera non solo di interpretazione di documenti ma anche di alta letteratura e di empatia psicologica col personaggio. Rispetto ad essa, e rispetto a tutto quello che già prima si sapeva, Agamben non apporta nuovi documenti: semplicemente ci pone davanti a una diversa interpretazione degli stessi e delle motivazioni del gesto finale, spostandole su un terreno di profondità e raffinatezza concettuale che possono ben dirsi all’altezza dello scienziato scomparso.

A ben vedere, sul terreno, che ben possiamo dire filosofico e ontologico su cui Agamben pone il suo discorso, ciò che conta è la scomparsa e non certo la modalità empirica in cui si è realizzata e che, se conosciuta, avrebbe in sostanza eliminato quel nucleo essenziale. Ecco perché la sparizione è stata così bene architettata: è la scomparsa stessa, il non essere, che qui è in gioco. Non si mettono qui in dubbio le capacità intuitive e predittive che Sciascia attribuisce a Majorana, è che in effetti sono provate storicamente, ma si punta l’occhio sul presente dei suoi e altrui studi, non sui loro possibili sviluppi.

Per capire la tesi di Agamben, bisogna tenere presenti alcuni elementi: Majorana non era solo uno studioso precoce e geniale, ma era, a detta di Fermi stesso, il più geniale di tutti; in più, si era trovato al centro di studi e ricerche che stavano cambiando non solo la faccia della fisica ma lo stesso suo statuto ontologico e metodologico.

Era stato proprio il suo ' amico' Heisenberg a trarre le conseguenze dalla teoria dei quanti e a formulare, nel 1927, quel rivoluzionario “principio di indeterminazione” che, ponendo su basi casuali la realtà e probabilistiche la scienza, superava la concezione del mondo e della conoscenza su cui la fisica newtoniana aveva poggiato le proprie basi e dato inizio alla radicale trasformazione attraverso la tecnica del nostro mondo. Come Heisenberg, Majorana era poi anche un po’ filosofo, come riconosce Sciascia: era cioè portato a porsi questioni metadisciplinari e, in questo caso, proprio meta- fisiche. Era un uomo di vasta cultura e non di astratti specialismi ( amava Dante, Shakespeare, Pirandello, fra l’altro). D’altronde, egli nelle lettere a Carelli insiste, addirittura con un richiamo a Ibsen, sul carattere non psicologico e non individualistico della sua scelta di scomparire. È può poi essere un caso che, fra i vari appunti degli anni dell’esaurimento, solo uno scritto molto particolare, epistemologico e non di fisica pura, la cui lettura può contenere molte “chiavi”, sia stato lasciato nella piena disponibilità dei posteri? In verità anche Sciascia era stato colpito dal citato saggio sulla statistica nelle scienze fisiche e sociali, in particolare dall’analogia finale fra l’agire dello scienziato moderno e l’arte del governare.

Ma, come Agamben, ci mostra è tutto il saggio che è interessante e la stessa analogia su cui Sciascia si era soffermato più che a un uso del potere a fini di distruzione richiama allo statuto ontologico della nuova scienza che è un modo di operare e non certo di conoscere. Quel che rimane pregiudicato è, più in generale, lo stesso concetto e statuto ontologico di realtà. Ed è esso che Majorana, secondo Agamben, intende riproporre o porre all’attenzione facendo della sua stessa esistenza, in senso radicale, una parte in gioco. È forse però giunto il momento, a conclusione di questo articolo- recensione, di enunciarla bene e per intero tutta la tesi di Agamben, con le stesse sue parole.

Eccole: «L’ipotesi che intendiamo suggerire è che, se la convenzione che regge la meccanica quantistica è che la realtà deve eclissarsi nella probabilità, allora la scomparsa è l’unico modo in cui il reale può affermarsi perentoriamente come tale, sottraendosi alla presa di calcolo. Majorana ha fatto della sua stessa persona la cifra esemplare dello statuto del reale nell’universo probabilistico della fisica contemporanea e ha prodotto in questo modo un evento insieme assolutamente reale e assolutamente improbabile. Decidendo, quella sera di marzo del 1938, di sparire nel nulla e di confondere ogni traccia sperimentalmente rilevabile della sua scomparsa, egli ha posto alla scienza la domanda che aspetta ancora la sua inesigibile e, tuttavia, ineludibili risposta: che cos’è reale?».