Il volto mostra “tutti gli impulsi e gli stati d’animo” che albergano nella mente dell’uomo: gioia, dolore, disprezzo, paura, rabbia, stupore, amore, odio, disgusto e tanti altri ancora. L’espressività rapida e mutevole del volto aiuta a comprendere l’Altro al di là della parola. All’inizio l’uomo non conosceva il linguaggio e l’espressività del suo volto svelava agli altri esseri umani i suoi stati d’animo. La comprensione dell’Altro e la comunicazione si manifestavano attraverso l’espressione del volto. E’ così che socializzava l’essere umano, che si riconosceva e si riuniva in gruppi affini.Pensate a quando vi avvicinate ad un Bimbo in fasce. Cosa accade? Se coglie sul vostro volto benevolenza e affetto, il Bimbo può rispondere subito con un sorrisetto. E noi subito ci affrettiamo a dire: “Come sei simpatico!”. In realtà è il bimbo che ha colto sul nostro volto la simpatia che lui stesso ci ha ispirato, si è cioè generata l’empatia, quel mettersi l’uno nei panni dell’altro. Ma se il Bimbo coglie sentimenti diversi, può scoppiare in un pianto dirotto. Il Bimbo non conosce ancora il linguaggio, non ha ancora sperimentato la parola, ma sa riconoscere e interpretare la mimica che esprime un volto, ed anche - ovviamente non meno importante - l’intonazione della voce.Ma oggi come sta cambiando la comunicazione, visto che il nostro volto è coperto in parte da una mascherina? Il Bimbo di cui sopra sarà sempre in grado di comprendere e cogliere “i mille accenni di metamorfosi” del nostro volto? O scoppierà subito a piangere? Se poi penso ai bambini che a settembre torneranno a scuola e dovranno usare la mascherina in classe, così come gli insegnanti, quale sarà la capacità di comprensione degli stati d’animo tra loro? Come verrà influenzata la socializzazione, uno dei capisaldi per la crescita degli individui? All’interno di un dialogo mi è capitato di sorridere. Allora tra me e me mi sono chiesta: “Visto che la mascherina mi copre la bocca, ed è proprio da un cenno della bocca che nasce il sorriso, gli occhi sono riusciti a comunicare quel sorriso al mio interlocutore?” Nel mondo digitalizzato di oggi si usano gli emoticon (emozione-icona), vale a dire l’espressione delle faccine. Vi sarà sicuramente successo di inviare un messaggio e di ricevere come risposta una faccina sorridente, stupita o piangente, o un cuoricino, o un simbolo buffo, o un animaletto, o comunque un’icona divertente. La comunicazione virtuale cerca di imitare e riprodurre la nostra mimica facciale, i nostri stati d’animo. La comunicazione non più verbale, non più scritta attraverso parole e frasi che articolano le nostre emozioni, ma espressioni, mimiche facciali sinteticamente accennate dalle faccine.Ma quella delle faccine è una comunicazione che ci soddisfa appieno? O per essere appagante la relazione umana ha bisogno della presenza fisica e quindi anche verbale? Quel modo particolare di comunicare cioè, che stabilisce una relazione, un legame diretto con l’Altro?Chi è quello che noi chiamiamo un grande attore? E’ colui, o colei, che - al di là del personaggio che interpreta, o del ruolo che svolge - con la sua gestualità, ma soprattutto con la mimica facciale e il modulare della voce, riesce a dare vita al personaggio, a risucchiarci nelle innumerevoli metamorfosi che quello attraversa durante lo svolgimento della storia. Insomma, il grande attore, ci fa entrare in empatia con lui e dunque col personaggio, con i suoi stati d’animo, con i suoi slanci: ce lo fa amare o odiare. Per fare un esempio, pensate un po' che ricchezza infinita di espressioni riesce a generare con la sua faccia la grandissima Meryl Streep. Nessun movimento è superfluo, fine a se stesso, tutto il muoversi del suo viso magico è finalizzato a creare il personaggio, ad ammaliare lo spettatore.Dall’Olimpo del cinema torniamo alla vita di tutti i giorni, all’importanza della mimica facciale e della tonalità della voce per stabilire rapporti umani, al di là del significato della parola e del linguaggio. Vi sarà capitato di entrare in contatto con persone che parlavano una lingua diversa dalla vostra. Una lingua a voi del tutto sconosciuta. Nel momento in cui però ci si guarda negli occhi a viso scoperto e si ode il tono della voce, riusciamo a comprenderci, ad emozionarci ed anche a spaventarci. Mi capitò su un treno in Tunisia tanti anni fa. Ebbi una lunga conversazione con una giovane donna con una bimba piccolissima e bella, che parlava un dialetto incomprensibile, e nemmeno una parola di francese. Un incontro tenero, vitale e intima, nonostante la barriera linguistica, come capita tra donne. Certe volte lo scambio di idee fatto con indosso la mascherina ci fa perdere anche le tonalità delle parole, visto che il respiro si puo' fare corto. Non vorrei però che questo mio insistere sull’importanza delle espressioni facciali per comunicare, possa indurre a pensare che sto suggerendo di abolire l’uso della mascherina in questo momento tragico che stiamo vivendo. Niente affatto. Questo manufatto - insieme ad altri accorgimenti, come il distanziamento - ci ha salvati, e continua a salvarci, dal pericolo di contagiarci. Tra l’altro, si sta sviluppando un modo di comunicare anche attraverso questo nuovo capo che ci troviamo ad indossare. Infatti, le mascherine si stanno personalizzando. C’è chi le indossa a fiori, chi colorate, chi nere, chi con disegni divertenti, chi con il tricolore o con lo stivale dell’Italia. Alcune donne le accoppiano al colore delle loro mise. E queste mascherine veicolano messaggi. Pensate all’ostentazione del triumvirato del centro destra che indossa mascherine con il tricolore come segno di riconoscimento. Mentre spesso i personaggi governativi indossano una mascherina con la carta geografica dell’Italia. Da non dimenticare quelle - bellissime - con i colori delle squadre di calcio più importanti. Insomma quest’oggetto che limita un po' la nostra libertà, ma che ci salva la vita, sta rapidamente trasformandosi in un accessorio che denota l’appartenenza ad un gruppo sociale. Una comunicazione fatta attraverso simboli.Un po' come quando, in adolescenza si indossano magliette con i propri idoli: cantanti, personaggi famosi, cartoon, o si appendono posters al muro che raffigurano i nostri beniamini. Messaggi, simboli che raffigurano e rappresentano le nostre appartenenze o i nostri desiderata. Quindi, le mascherine veicolano messaggi e simboli senza più l’uso della parola. Sono messaggi e simboli taciti. Si potrebbe dire che nascondano misteri. Visto che le innumerevoli metamorfosi del volto ci vengono negate. Misteri che forse ci separano gli uni dagli altri. Le mascherine si stanno trasformando da prodotti medicali in maschere. Le maschere sono sempre servite all’uomo per mostrare l’appartenenza ad un determinato gruppo o etnia. Ma le maschere costruiscono anche barriere, confini, muri. Io diverso da te, ma uguale al mio gruppo di appartenenza. La pandemia ed internet stanno modificando il nostro modo di comunicare. La comunicazione si fa distante. La relazione si fa distante, introducendo subdolamente il sospetto e il mistero per ciò che non si può conoscere appieno Forse dobbiamo chiederci se questa trasformazione nell’uso della mascherina, da prodotto medicale che ci difende dall’ipotesi di contagio, in un accessorio di abbigliamento, non sia un modo di negare e rimuovere il dolore e la paura che stiamo vivendo. Volendo essere più ottimisti, possiamo ipotizzare che in realtà tutte queste mascherine piene di simboli e di colori sono una forma di accettazione più a cuor leggero di tutto ciò che stiamo affrontando.  Vorrei fare una riflessione rispetto ai contatti fisici. Ci siamo rinchiusi nelle nostre case per mesi, distanziandoci gli uni dagli altri, isolandoci dall’affetto di congiunti e amici. Lo abbiamo fatto per evitare l’aggressione di questo virus invisibile e spietato. Allora la domanda è: come mai proprio adesso c’è questo profluvio di manifestazioni di tutti i tipi, nonostante il virus non sia stato ancora addomesticato? Da cosa nasce questa necessità di aggregarsi? Elias Canetti nel suo libro “Massa e Potere” scrive: “Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto.”  Dunque, se accettiamo il presupposto autorevole di Canetti, nel momento in cui ci confondiamo nella massa, quando ci si trova corpo a corpo, l’uno addosso all’altro, proprio allora, con l’assenza di distanza, si esorcizza il timore di toccarci. E la paura, accumulata nella totale solitudine e nella mancanza di socializzazione, svanisce. Ma con grande facilità, e con un profondo senso di rabbia, diamo degli irresponsabili o degli sciagurati, ai giovani che si addensano nella movida o che festeggiano una vittoria calcistica. Però, in maniera conformista e un po' ipocrita, non diamo degli irresponsabili a coloro che “più che giustamente” manifestano in America e nel mondo per i problemi razziali. Il dramma degli abusi da parte della polizia sugli Afroamericani, non è qualcosa che avviene oggi per la prima volta, potremmo anzi dire che è una strage che dura da sempre. Sono migliaia e migliaia i George Floyd morti per mano della polizia. Stella Jean nella manifestazione “black lives matter” svoltasi a Piazza del Popolo a Roma, urlava: “Dove erano prima gli indignati di oggi, quando a sette anni già subivo insulti per il colore della mia pelle?” Allora, ci chiediamo, perché proprio ora, la morte del George Floyd di turno ha fatto da detonatore? Facendo scattare questa necessità planetaria di dimostrare contro abusi razziali atavici? Come non pensare che la necessità di protestare in questo momento difficile per tutto il genere umano, sia stata innescata dalla esigenza di esorcizzare la paura del contagio del virus? Dunque, proprio perché ci sentiamo più al sicuro nei contatti che avvengono nella massa, quell’assenza di distanza, quella vicinanza, quel corpo a corpo, ci tranquillizzano. Strano ma vero. George Floyd urlava; “I can’t breath”, “Non posso respirare”. La folla ripete:  “I can’t breath”,”Non posso respirare”. Certo non per un ginocchio sul collo che impedisce il respiro, e per tutti gli abusi subiti dalla gente di colore nel corso dei secoli, ma – forse soprattutto - per la paura che oggi incute quella invisibile pallina colorata che ci impedisce di respirare. Appunto, una paura che toglie il respiro.