Non è che ci sia troppo da scandalizzarsi se la stampa internazionale mette il naso negli affari di casa nostra e pretende di indicare agli elettori italiani come devono votare nel referendum prossimo venturo. E' quel che i giornali di tutto il mondo fanno comunemente, e il belpaese certo non fa eccezione: basta leggersi quello che le autorevoli testate italiane scrivevano a proposito di Brexit per scoprire che quanto a impicciarci delle elezioni altrui non siamo secondi a nessuno.Però un certo risentimento è comprensibile, trattandosi di un Paese per il quale la sovranità limitata è norma, passato quasi senza soluzione di continuità dalla tutela americana a quella, se possibile ancor più soffocante, di una mamma Europa spesso somigliante a una matrigna. Il ricordo dell'intervento a gamba tesa che cinque anni fa esatti mandò il governo Berlusconi gambe all'aria per sostituirlo con uno anche peggiore è troppo recente per non sospettare il peggio quando, pur lecitamente, i giornaloni americani e inglesi aprono contemporaneamente il fuoco.Ma è poi vero che nella storia repubblicana le potenze estere si sono intrufolate tanto spesso e sono state tanto invasive da creare dubbi sulla reale trasparenza democratica delle scelte dei governo e delle prove elettorali? Certo, se si tiene conto della conventio ad excludendum nei confronti del Pci e della conseguente "democrazia bloccata", l'invasione di campo c'è stata eccome e massiccia, specialmente nel dopoguerra e nei primi anni '50. Però pensare che le cose in piena guerra fredda potessero andare diversamente significa peccare di esagerata ingenuità, e comunque è arduo pensare che a determinare i risultati elettorali sia stata solo o sprattutto la pur cospicua ingerenza yankee. Ma se nello spirito di Yalta quella era la norma e non la violazione della stessa, ci sono stati casi che, pur nel quadro dell'ordine bipolare, sono andato molto oltre i confini del lecito.L'ordine degli Usa: "Fuori la Fiom dalla Fiat"In occasione delle elezioni del 1955, per esempio, che non erano politiche ma sindacali. Alla Fiat la Fiom-Cgil aveva ancora una solida maggioranza assoluta, ma la resistenza operaia era in realtà già stata stroncata. Da tre anni i licenziamenti fulminavano a vista i principali militanti. I reparti confino dove rinchiudere quelli che non potevano essere cacciati erano in funzione già dalla fine del 1952. Persino Vittorio Valletta, l'onnipotente e tutt'altro che morbido amministratore delegato Fiat, non riteneva necessarie né opportune ulteriori strette.In Italia però era appena arrivata come nuova ambasciatrice a stelle e strisce la giornalista e autrice Clare Boothe Luce, una che solo a sentire parlare di rossi reagiva molto peggio del più imbufalito tra i tori. Convocò Valletta e mise le carte in tavola senza un filo di diplomazia. La Fiat era in attesa di una commessa d'oro da Washington, per la costruzione degli aerei F86K. Altre commesse, non meno lucrose, erano in programma per gli anni successivi. La gentildonna chiarì a Valletta che se le poteva scordare fino a che la Fiom fosse uscita vincente dalle libere elezioni sindacali.Valletta provò a controbattere. Rivendicò con giusto orgoglio ben 687 licenziamenti politici freschi freschi. Volò di corsa a Washington nella speranza di convincere l'amministrazione Eisenhower. Niente da fare. Tutto quel che ottenne fu la firma del primo contratto: i successivi restavano subordinati all'abbattimento della Fiom. Valletta capì l'antifona e dichiarò la guerra totale. Arruolò un provocatore di serie A come Luigi Cavallo, si fece dare una mano, anzi tutte e due, dall'amico Renzo Rocca, potentissimo dirigente del Sifar. Licenziò a manetta, minacciò gli operai uno per uno mentre Cavallo si occupava delle consorti, alle quali faceva spiegare dai suoi uomini che la famiglia sarebbe finita presto in miseria se il marito non metteva la testa a partito Fiat. Nelle elezioni del 1955 la Fiom passò dal 63 al 36%, perdendo la maggioranza anche relativa. L'anno dopo scivolò al 28,8% e nel 1957 al 21,4%. La democrazia era salva.«Fermare Mattei... »Dal punto di vista degli equilibri politici nazionali il problema grosso si pose all'inizio degli anni '60. Dopo la rovinosa caduta nel sangue di Fernando Tambroni, spirava un vento di centro-sinistra. La nascita di una maggioranza col Psi era evidentemente dietro l'angolo. Nel novembre 1961 l'addetto militare Vernon Walters propose senza mezzi termini, in una riunione all'ambasciata Usa, la sua ricetta: un bel colpo di Stato qualora i cosacchi di Pietro Nenni fossero davvero entrati nella "stanza dei bottoni". Il capostazione Cia a Roma Karamessines era più moderato: secondo lui bastava adoperarsi per devitalizzare l'esperimento politico. Incidentalmente, è proprio quel che si verificò tre anni dopo, quando l'ombra del golpe di De Lorenzo, il "rumor di sciabole", bastò ad annientare tutte le ambizioni riformiste del centro-sinistra.A far pendere la bilancia a favore delle "colombe" di Langley era stato in larga misura il parere della Casa Bianca. Kennedy non era particolarmente preoccupato dall'ingresso del Psi nel governo italiano. Il che non vuol dire che il presidente della Nuova Frontiera non intendesse occuparsi di brutta anche degli affari italiani. Però guardava al sodo e al pericolo reale, che per gli Usa, per il Regno unito e per le "sette sorelle anglo-americane" non era Nenni ma Enrico Mattei. Quella sì che era una spina nel fianco, e da tutti i punti di vista: da un lato trattava con i Paesi produttori di petrolio mettendo sempre più in difficoltà le sette onnipotenti compagnie anglo-americane, dall'altro, alla faccia dei blocchi, comprava petrolio dall'Urss e dialogava con la Cina rossa. Con Amintore Fanfani, allora presidente del consiglio, Kennedy fu tassativo: «Mattei deve essere fermato».Guerra fredda a parte, non c'è caso più clamoroso di ingerenza estera negli affari italiani della lunga campagna contro Mattei e la sua Eni scatenata per tutti gli anni '50, senza esclusione di colpi, dagli Usa e forse ancora di più dall'Uk. I documenti riservati scoperti dai giornalisti Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino negli archivi di Londra dimostrano che l'invadenza soprattutto inglese fu davvero senza limiti, dal condizionamento della stessa stampa italiana alle trame con i politici fedeli o assoldati, dalle fantasie golpiste al supporto garantito a ogni strategia della tensione.Quando fu ucciso, Mattei era in procinto di incontrare Kennedy. Gli ottimisti sono convinti che quell'incontro avrebbe potuto risolvere il contenzioso. In realtà non ve n'è certezza alcuna, ma è un fatto che in entrambi i delitti spunta Carlos Marcello, potentissimo padrino di New Orleans, indicato come il regista tanto a Dallas quanto a Buscapè.«Il Pci al governo? »La nascita della solidarietà nazionale, una quindicina d'anni dopo quella del centro-sinistra, fu altrettanto travagliata. Moro e Andreotti dovettero sudare per convincere gli Usa a ingoiare il Pci in una maggioranza di governo, nonostante alla Casa Bianca ci fosse un presidente contrario agli interventi brutali come Jimmy Carter. Ci riuscirono, racconta l'allora ambasciatore Gardner, spiegando che tirare il Pci nell'area di governo era il solo modo per varare le politiche anti-operaie ritenute necessarie e poi sconfiggerlo, proprio in seguito alla complicità in quelle politiche, nelle nuove elezioni politiche. Andò proprio così.Prodi, D'Alema e il KossovoA Muro abbattuto, le ingerenze estere non sono diminuite e neppure diventate più trasparenti. La manovra che nel 1998 portò alla caduta di Prodi e alla sua sostituzione con D'Alema, per esempio, ha da quel punto di vista aspetti mai davvero chiariti. L'abbattimento del professore fu farina di un sacco solo italiano, su questo non c'è dubbio. Ma sugli esiti successivi, sulla sua sostituzione con Massimo D'Alema grazie a un'improbabile alleanza con Francesco Cossiga, pesò altrettanto certamente, e in misura determinate, la pressione degli Usa che si accingevano a scatenare la guerra del Kosovo e volevano garanzie sulla partecipazione dell'Italia alla bella impresa.«La trojka contro Silvio l'impresentabile... »L'uso della stampa estera per ledere l'immagine di un leader italiano indicandolo come "impresentabile" e così indebolirlo ha trovato il suo momento d'oro con Silvio Berlusconi, che certo di suo si prestava bene al gioco. Nell'estate del 1994, il massacro sulla stampa internazionale fu incisivo, anche se non determinante, per sloggiare da palazzo Chigi l'allora Cavaliere appena nove mesi dopo una vittoria che appariva granitica. Ma la Waterloo di Berlusconi arrivò oltre quindici anni più tardi, nel 2015. Neppure negli anni più gelidi della guerra fredda gli americani si erano permessi un'intrusione ai confini del golpismo e oltre come quella dispiegata nell'agosto 2011 dall'Europa per cacciare Berlusconi e sostituirlo con un proconsole della Ue. Al posto dei carri armati, in quell'occasione, ci fu come si sa "lo spread". La manovra in realtà era già stata sperimentata nell'estate del '94, quando alle bordate della "stampa internazionale" aveva corrisposto con perfetto sincronismo la caduta della borsa. Nel 2011 fu ripetuta in dimensioni ben più vaste.Berlusconi non era certo un invidiabile presidente del consiglio, ma i motivi per cui i mandarini di Bruxelles e Berlino volevano toglierselo dalle scatole erano i peggiori: la resistenza ai diktat della trojka. Il cannoneggiamento dei grandi media, tanto italiani quanto internazionali, preparò il terreno, e va detto che un Berlusconi ormai privo di ogni freno inibitorio rese il compito facilissimo. Una volta smantellata la residua credibilità internazionale oltre del reprobo, l'assedio nelle Borse pilotate fu quasi un gioco e nessuno ci trovò nulla da ridire.Se si pensa alla pesantezza estrema di quell'intervento, sui titoli ferragostani dei giornali che sono corsi in soccorso di Renzi non c'è davvero niente da ridire. Bisogna però notare che stavolta la bella brigata non mira ad affondare ma a salvare qualcuno. Di solito è una missione più difficile. Stavolta potrebbe rivelarsi impossibile.