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Che per capire nel profondo il proprio tempo ( e la politica) occorra interrogare e interpretare più l’immaginario che l’hegeliano pensiero intellettuale è operazione ormai obbligata. E non è più necessario ricorrere alla lezione di Gramsci, Umberto Eco o Slavoj Žižek per capirne l’importanza. Ecco perché si rivela particolarmente interessante e utile un saggio di Christian Uva, docente di Storia del cinema e Tecnologia dell’audiovisivo al Dams di Roma Tre, che racconta, descrive e spiega uno dei più importanti e globali fenomeni degli ultimi vent’anni: Il sistema Pixar ( il Mulino, pp. 190, euro 13,00). Nata da una costola della Lucasfilm di George Lucas, acquisita da Steve Jobs nel 1986 e divenuta nel 2006 di proprietà della Walt Disney, la Pixar rappresenta infatti un grande esempio di industria creativa capace di imporre a livello globale un marchio che è cifra di una precisa visione del mondo oltre che di un solido e corposo immaginario. Film come la trilogia di Toy Story, Alla ricerca di Nemo, Gli incredibili, Up, Ratatouille, Wall- E, Cars o
Inside Out sono il frutto di un sistema industriale e creativo che non solo ha rivitalizzato il cinema d’animazione ma ha accompagnato le trasformazioni della società americana e occidentale. Intanto, a leggersi l’intrigante e documentatissima ricostruzione di Uva, le vicende e i personaggi dei film Pixar sono di fatto il riflesso, l’emanazione, la continuazione di una storia che è prima di tutto quella dell’omonimo studio di animazione. Se sulla sfondo, infatti, è immancabile una visione del mondo che a sua volta si radica in una filosofia politica particolare – quella che Uva definisce «retrofuturismo» – tutto ciò risente delle biografia dei quattro fondatori. Nel Dna dello studio californiano ci sono le sensibilità di un figlio di Disneyland ( John Lasseter), di un apostolo della “Californian ideology” ( Steve Jobs), di un hippy della West Coast ( Alvy Ray Smith) e di un mormone cresciuto e formatosi a Salt Lake City ( Ed Catmull).
In queste quattro figure, oltre alla comune passione per la tecnologia digitale, si incarnano motivi ideologici e culturali, addirittura metapolitici, che connotano un momento storico di grandi trasformazioni per gli Stati Uniti e l’intero Occidente. Contemporaneamente, riverberano anche i rivolgimenti sociali e antropologici che, dalla metà degli anni 60 in avanti, determinano una sfida all’identità nazionale americana tradizionale, promuovendo l’affermazione di nuove sintesi. In sostanza, ciò che accomunava i quattro fondatori era una sorta di individualismo comunitario, un libertarismo hi- tech, secondo cui la cultura beat e hippy si innesta con la ricerca della Silicon Valley, e «combina in maniera promiscua lo spirito libertario della controcultura con lo zelo im-prendi-toriale degli yuppie.
Ne deriva una visione ottimistica del futuro che viene presto abbracciata entusiasticamente da informatici nerd, studenti fannulloni, capitalisti innovativi, attivisti sociali, accademici alla moda». In pratica, i tradizionali valori americani dell’individualismo e del comunitarismo della frontiera ritrovano una sintesi ideale grazie al catalizzatore della tecnologia informatica.
Del resto, si tratta della nuova tradizione culturale che s’impone negli anni 80 – quando molti ex hippy si ritrovano nello stesso spirito liberista della reaganomics, poi proseguito in realtà, con gli innesti del caso, anche con Clinton, Bush jr e Obama – e che trova il suo slogan più efficace nel famoso “think different” coniato nel 1997 per accompagnare la campagna pubblicitaria per il lancio sul mercato dei computer Apple Power-Book G3 e iMac.
«A giudicare dagli esiti raggiunti – spiega Uva – quel “pensare differente” è stato effettivamente in grado di determinare profondi cambiamenti nelle abitudini, nei consumi e negli stili di vita delle persone esattamente come, nel proprio ambito, è riuscita a fare la Pixar con i suoi prodotti, capaci di costruirsi nel giro di pochissimi anni un pubblico profondamente fidelizzato». Basterebbe dare un’occhiata al modo globale e pervasivo con cui i personaggi dei suoi film sono entrati e si sono radicati non solo nell’immaginario comuni di bambini, ragazzi e adulti, ma anche, nella quotidianità, tramite il massiccio merchandising dei suoi eroi, nella fisicità della vita di tantissime famiglie.
Ora, il saggio di Uva – frutto di una ricerca anche sul campo – ci racconta davvero tutto. Dal nome e il logo dello studio di animazione sino a tutte le tappe attraversate dai quattro fondatori. Il nome Pixar sarebbe nato nel 1981 durante una cena, quale sintesi di pixer e radar, cercando di fornire il nome a un computer per realizzare grafica. Il logo, invece, riprende la famosa lampada da studio L- 1 dell’azienda norvegese Luxo, cui John Lasseter si ispirò per il cortometraggio Luxo Jr. realizzato dalla Pixar proprio nell’anno della sua fondazione, nel 1986.
«La breve animazione – leggiamo nel libro – che introduce ciascun film dello studio di Emeryville, in cui la piccola lampada da tavolo salta ripetutamente sopra la “i” della scritta Pixar per sostituirvisi, oltre a essere diventata un vero e proprio feticcio per molti suoi fan al pari di un simbolo come Topolino per la Disney, si configura così come un ideale sintesi del mito fondativo di questa società individuabile nella fusione tra creatività e tecnologia, incarnate paradigmaticamente in un oggetto dall’affascinante design che, richiamando contemporaneamente passato e futuro, guarda verso il pubblico proiettandovi la sua luce».
Una cosa è certa: dentro all’im-maginario della Pixar c’è l’America profonda radicata nel background della grande maggioranza del Midwest o di Stati come Ohio, Colorado, Michigan, Minnesota, probabilmente più in contatto con la sensibilità dell’uomo comune di quanto non siano l’abitante di Hollywood o di New York. Ma contemporaneamente c’è anche l’America della rivoluzione tecnologica e dei fermenti comunitari e libertari, il mondo di Stanford, di Berkeley e della Silicon Valley, con tutta la vasta area che ha espresso la new economy e la rivoluzione digitale.
Ecco perché a Uva viene spontanea una domanda: «All’indomani dell’elezione di Donald Trump c’è da chiedersi che tipo di immaginario identitario l’industria creativa americana, in particolare la Pixar, sarà in grado di restituire». I segnali non mancano.
Il 14 settembre arriva nelle sale italiane Cars 3. Ha spiegato a Repubblica il regista Brian Free: «È un impasto di controcultura e di emozioni che l’umanità sta perdendo». E aggiunge John Lasseter, facendo riferimento a temi come le diversità e il razzismo: «Voglio essere libero di dar voce a tutte le minoranze nei film Pixar. La mia libertà io la porto addosso. Ho un guardaroba pieno di camicie strampalate, zeppe di disegni…».
Più avanti sarà quindi la volta di Coco, film diretto da Lee Unkrich e Adrian Molina. Qui il protagonista, il dodicenne Miguel, sarà per la prima volta un bambino dalla pelle olivastra e dai tratti latini. Il ragazzino compirà un viaggio nella terrà dei morti e scoprirà la sua identità. Una delle frasi del primo trailer di Coco è eloquente: «Siamo tutti parte del nostro passato». Non c’è dubbio che tale scelta rimandi all’esplicitazione di una dimensione restata finora sotto traccia ma ora rivendicata apertamente dalla Pixar nella consapevolezza che la vera America, quella sempre raccontata nei propri film, sia costruita sull’incontro e la fusioni tra diverse culture, narrazioni e sistemi di pensiero. «È chiaro – sottolinea Uva – che in un momento di riaccensione delle tensioni razziali quale quello attraversato dalla nuova America di Trump ( per la verità mai di fatto sopite nemmeno sotto le precedenti amministrazioni), una scelta come questa ( benché comunque risalente a un periodo antecedente alla discesa nella competizione elettorale del tycoon newyorkese), soprattutto se compiuta da una delle principali industrie produttrici di immaginario globale, si carica di un significato particolarmente rilevante». Degne di note le parole con cui Unkrick ha definito la sua opera: «Una lettera d’amore per il Messico». Che lo abbia detto dopo la vittoria di Trump qualcosa deve significare. «Tali termini – conclude Uva – hanno inevitabilmente acquisito una precisa valenza politica, dal momento che, come è noto il nuovo presidente degli Stati Uniti ha incardinato la sua campagna elettorale su una retorica anti- immigrazione di cui ha destato scalpore proprio l’idea di costruire un muro al confine con il Messico per bloccare l’ingresso dei migranti irregolari e per combattere il narcotraffico». Proposta contro la quale tutti e tre i consulenti messicani ingaggiati dalla Pixar si sono schierati pubblicamente. Cosa accadrà? La Pixar resta una grande macchina dell’immaginario capace di cartografare il paesaggio interiore ed esteriore dell’America, in tutte le sue contraddizioni. Come quella ben descritta nell’episodio con cui si conclude il libro. Mentre infatti, il 29 gennaio scorso in un parco di fronte alla Casa Bianca migliaia di persone protestavano contro il decreto esecutivo di Trump mirato a bloccare l’ingresso negli Usa ai cittadini provenienti al alcuni paesi a maggioranza islamica, all’interno della residenza del presidente degli Stati Uniti veniva proiettato per la sua famiglia, per i membri del suo staff e per i loro figli, un film Pixar come Alla ricerca di Dory, in cui una pesciolina smemorata riesce a tornare a casa attraverso l’oceano proprio grazie all’aiuto di una moltitudine di creature tanto diverse da lei per origine, abitudini di vita e provenienza. È, anche questa, la forza dell’immaginario.