Secondo Vittorio Sgarbi, un’opera d’arte deve suscitare dibattito. Ma c’è dibattito e dibattito: quello che nasce da una domanda provocatoria e ben posta e quello che invece scaturisce quando l’artista prende una toppa. Il secondo caso è quello che è accaduto a Gaetano Pesce: per commemorare la sua famosa poltrona realizzata nel 1969 a forma di comoda donna, invece di chiedere scusa, ha solo peggiorato la situazione. E ha dedicato la sua nuova “opera” alle donne vittime di violenza: una donna- poltrona senza testa, senza mani, senza piedi, trafitta da centinaia di spilli. L’effetto è doppio, in entrambi casi svilente: le donne ridotte a oggetto e “vittimizzate”.

La poltrona che campeggia in piazza Duomo a Milano in occasione del salone del mobile è un pugno nell’occhio per la sua bruttezza. Ma questo rientra nel giudizio personale. La polemica è soprattutto su ciò che rappresenta. Per il movimento femminista Non Una di Meno si tratta di «una rappresentazione della violenza che è ulteriore violenza sulle donne perché reifica ciò che vorrebbe criticare. La donna per l’ennesima volta - scrive Non Una di Meno Milano - è rappresentata come corpo e vittima, senza mai chiamare in causa l’attore della violenza». Scrive su facebook l’intellettuale femminista Lea Melandri: «Se gli uomini vogliono affrontare il problema della violenza contro le donne, lo facciano interrogando il loro immaginario, artistico e non artistico. Neanche l’arte è neutra. L’identificazione della donna con una poltrona, un divano o un tappetino su cui sdraiarsi, fa parte dell’immaginario maschile. Ma qui è molto peggio perché viene usato per un altro stereotipo che oggi va molto: la donna vittima, un Cristo al femminile».

Non Una di Meno Milano prima della inaugurazione ufficiale, ha inventato il suo vernissage: “Ceci n’est pas une femme” in presenza del famoso ( e inventato) artista francese Poisson. Una parodia, un ribaltamento, una presa in giro, una critica radicale: «Poisson - hanno poi scritto sul loro profilo facebook - si è detto molto felice della presenza delle femministe perché “se il tema è la violenza sulle donne è giusto che parlino le donne”. Ha anche confessato di avere sempre con sé una copia del piano femminista contro la violenza di genere, da cui ha tratto ispirazione in particolare alla voce “Linee guida per una narrazione non sessista”».

Da anni il tema della violenza sulle donne è diventato “trand topic”, quasi di moda. Se ne parla molto e si è riusciti a sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica. Ma come ne se parla? Va sempre bene? La poltrona senza testa e trafitta richiama questo tema. Non si può pensare di parlare di violenza sulle donne senza mettere in discussione l’immaginario che la produce: quell’immaginario fondato sull’idea di un femminile sempre disponibile, comodo, al servizio del desiderio maschile. Se su questa vetusta idea appoggi la tua critica alla violenza, ottieni il risultato opposto: la violenza la legittimi, la propaghi. Dici di volerla criticare e invece te ne fai inconsapevole o meno - una sorta di divulgatore. La narrazione è fondamentale. Non ci si improvvisa. E anche se sei un artista, non puoi prescindere dalla conoscenza, dallo studio, dalla riflessione.

L’attenzione al linguaggio riguarda tutti e tutte: chi fa politica, comunicazione, giornalismo. Quando si parla di violenza sulle donne prevalgono tre grossi limiti. Il primo potrebbe sembrare il più paradossale: si tende a parlare di chi subisce violenza solo come vittima. Si tende a negarle soggettività, forza: la descrizione è fondata sulla debolezza, sul bisogno di tutele e non sull’essere soggetto di diritto. Ne viene fuori spesso un quadro pieno zeppo di stereotipi, pregiudizi, luoghi comuni. Cioè la base della violenza di genere per come definita dalla Convenzione di Istanbul. L’altro grosso limite è quello di pensare che tutto possa risolversi con l’aumento delle pene. Il cambiamento è affidato alla galera, alla punizione intesa come vendetta. Neanche la violenza sulle donne sfugge al “populismo penale”. Il terzo grosso limite è pensare che questa piaga si possa sconfiggere senza un messa in discussione radicale dell’immaginario. E’ quello che è accaduto con l’opera di Pesce: un monumento alla misoginia spacciato per critica alla violenza.

Ha ragione Non Una di Meno Milano quando pone il problema di dare visibilità ai soggetti direttamente interessati, a quelle donne e a quegli uomini che ogni giorno si battono, ragionano, inventano un nuovo mondo. Ma per fortuna c’è l’artista Poisson, almeno lui ha capito e la prossima volta farà sicuramente meglio del collega Pesce.