Certo, ad essere ad effetto il titolo del libro che ha appena pubblicato Nicola Porro lo è fin troppo: La disuguaglianza fa bene. E, come sottotitolo, Manuale di sopravvivenza per un liberista (La Nave di Teseo, pp. 317, euro 16,50).In verità, il titolo è anche quello di una delle sette parti in cui il libro è diviso, spaziando dall'economia alla cultura, dalla vita quotidiana alla storia del pensiero politico. Lo spunto di ogni capitolo è sempre un altro libro, a volte un classico ma più spesso una recente novità editoriale. Un libro che parla di libri, perciò, questo di Porro. Il quale ha raccolto buona parte dei suoi interventi usciti in un rubrica domenicale de Il giornale intitolata appunto "Biblioteca liberale". Il testo ha pertanto un taglio giornalistico, si lascia leggere e capire con facilità, pur andando spesso diritto al lato concettuale delle faccende. Una sorta di prontuario delle idee di quella cultura liberale-liberista che, nonostante qualche concessione di facciata, continua ad avere da noi scarso successo sia da un punto di vista teorico sia soprattutto da quello pratico (come ad esempio dimostrano le mille ingessature e privilegi protezionistici che ingabbiano le energie vitali che pur sono presenti nella società italiana).Ma ritorniamo al tema evidenziato dal titolo. E chiediamoci, prendendo spunto dal volume ma sviluppando riflessioni personali: la disuguaglianza fa davvero bene, è un valore positivo? Per dare una risposta sensata a questa questione, e a molte altre che essa si porta dietro, occorre compiere alcuni distinzioni. Prima di tutto quella fra l'ambito dei valori e quello empirico dei fatti. Cominciamo da quest'ultimo e assumiamo che la disuguaglianza sia, come normalmente è nel discorso pubblico, un concetto prettamente economico. Formuliamo così allora la questione: è proprio vero che il nostro è un mondo di disuguaglianze crescenti, che negli ultimi decenni la disparità di fortune fra gli uomini è aumentata sensibilmente? Dipende. Se ci si limita, nell'analisi, ai paesi occidentali, è indubbio che, come si dice, la forbice sia aumentata fra i ricchi, sempre di meno e sempre più ricchi, e tutti gli altri. Ciò che soprattutto è andata assottigliandosi, o comunque ha cominciato a mostrare difficoltà che prima non aveva, è la cosiddetta borghesia, cioè quella classe media diffusa che, soprattutto nei decenni seguenti al secondo conflitto mondiale, ha rappresentato il tessuto connettivo delle nostre società. È questo un problema serio, su cui occorre riflettere. Se però poi dalla nostra parte di mondo ci spostiamo a considerare il globo intero, le cose stanno ben diversamente. In vaste aree del pianeta ove non esisteva una "classe media", essa poco alla volta, sempre negli ultimi decenni, è andata formandosi e consolidandosi. La ricchezza diffusa in queste società "in via di sviluppo", che poi da un punto di vista quantitativo rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ha compensato, in qualche modo, quella da noi perduta: è come se avessimo ceduto parte della nostra ricchezza, tutto sommato poca parte, agli altri. Ma, in fin dei conti, non è questo il dato rilevante della questione. Quando, infatti, si dice che la stragrande maggioranza della ricchezza mondiale è in mano a un per cento dei Paperoni e che gli altri devono limitarsi a raccogliere le briciole, non si aggiunge che questi valori vanno considerati in senso relativo e non assoluto. Il fatto è che anche i poveri di oggi non possono minimamente essere paragonati, in nessuna parte del mondo, ai poveri di un tempo. Oggi di povertà si soffre, e tanto, ma si muore molto meno di un tempo. C'è stata infatti quella che, con efficace espressione, il Premio Nobel Angus Deaton ha chiamato "grande fuga" (La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza (Il Mulino, pp. 384, euro 28). Fuga, prima di tutto, dalla malattia e dalla fame, con una drastica diminuzione della mortalità infantile e un aumento esponenziale dell'età media e delle aspettative di vita di ogni individuo. E tutto questo è accaduto, soprattutto grazie alle conquiste della scienza e della tecnica, proprio mentre anche il numero della popolazione globale cresceva a dismisura, fino a passare, nel giro di un secolo, da alcune centinaia di milioni ai sette miliardi di individui attuali.Che significa tutto ciò? Che dobbiamo ad esempio abbandonare a sé stessi i poveri? Niente affatto. Nostro dovere è intensificare la lotta alla povertà, perché essa sì, non la disuguaglianza, costituisce un problema morale. Per farlo dobbiamo però: 1) Non prendercela con il nostro modello di sviluppo, che, lungi dall'essere la malattia, è stata (come la storia dimostra) e continua ad essere (quali sono le alternative?) l'unica medicina possibile per curare le "naturali" condizioni di miseria, deprivazione, carestia, malattia, proprie dell'umanità; 2) Individuare forme di politiche contro la povertà che non ripetano gli errori del passato, tipo quegli "aiuti allo sviluppo" che sono stati (ci ricorda sempre Deaton) non solo inefficaci ma hanno anche avuto esiti perversi. Per chi scrive dovrebbe trattarsi di politiche "in negativo", o di incentivi alla solidarietà privata, ma su questo punto, ovviamente, è possibile avere idee diverse.Passando al lato filosofico della questione, ciò che io sottolinierei è il fatto che l'uguaglianza, al contrario della libertà, non è un valore in sé. Si tratta, infatti, di un concetto empirico, cioè di relazione: si è uguali o diseguali sempre rispetto a qualcosa e agli altri. Da un punto di vista filosofico, che per chi scrive è l'altra faccia di quello liberale, l'unica uguaglianza possibile è quella nella libertà. Il che significa uguaglianza nell'umanità, nella dignità, nella diversità. Ogni uomo è tale in quanto è diverso dagli altri, da tutti i punti di vista ed anche da quello materiale della propria fortuna economica. Ed è un bene che sia così, perché, al contrario, assisteremmo ad un livellamento che ci farebbe perdere ogni piacere di vivere e cioè appunto di essere liberi. La libertà è un principio di individuazione e ogni uomo deve essere rispettato nella sua dignità di essere libero e perciò diverso da ogni altro. È, per dirla con Kant, la nostra socievole insocievolezza, il nostro dialettico rapporto con gli altri, che ci ha permesso di uscire dalla orgiastica comunità primitiva e di ascendere alle vette di quello che chiamiamo "progresso". C'è chi preferisce all'individuazione e all'uso della libertà personale e della responsabilità individuale, che sono per definizione sempre insicure e sempre faticose, l'arcadica vita delle pecore al pascolo di cui parlava sempre il filosofo di Koenigsberg. Non stiamo a giudicare, ma almeno che si sia consapevoli delle vere alternative in campo!  Molti critici della tesi che la "diseguaglianza fa bene" si richiamano poi, per contrasto, ad una prospettiva "di sinistra" che giudicano ben diversa dall'egualitarismo marxiano. Fanno riferimento, per la precisione, alla tesi dell' "uguaglianza dei punti di partenza", o anche delle "pari opportunità". Per Michele Ainis, che ha recensito qualche giorno fa il libro di Porro su La Repubblica, l'ideale regolativo dovrebbe essere «l'eguale libertà di diventare diseguali, però partendo eguali. Un liberista non sarà d'accordo. Un liberale, sì». Ora, a parte il fatto che la distinzione fra liberale e liberista è molto discutibile, mi permetto di dissentire con l'illustre giurista. Un tempo l'avrei pensato anche io, oggi mi son reso che le espressioni "pari opportunità" e  "eguali condizioni di partenza" sono mere astrazioni.. Il rapporto fra condizioni e realizzazioni umane non si dà infatti mai come rapporto fra due entità date, statiche, immobili. E' piuttosto sempre un rapporto dialettico, di tensione, con tante sfaccettature e sottili distinzioni interne. D'altronde, spesso è proprio chi è partito svantaggiato nella "lotteria della vita" che non si è adagiato e ha trovato in sé quelle energie vitali che gli hanno permesso di emergere e primeggiare. Ciò per cui bisogna battersi, soprattutto da un punto di vista liberale, è per una sempre maggiore mobilità in seno alle nostre società: per la scomparsa, detto altrimenti, dei corporativismi e delle ingessature che possano permettere a chiunque di passare dalla diseguaglianza iniziale dei punti di partenza ad altre e diverse diseguaglianze di arrivo. La vita è una gara truccata in partenza, ma generalmente, nelle società libere, ci sono vie di uscita per tutti. Occorre ovviamente lottare. Ma la libertà, cioè la vita, è proprio questo: lotta e niente altro che lotta. La mia impressione è che nell'accettare certi miti liberal, quale appunto "l'eguaglianza dei punti di partenza", ci sia un'accondiscendenza verso un ideale che aspetta dagli altri benessere e felicità. Lo Stato si riduce così a un correttore delle fortune e a un dispensatore di risorse di seconda istanza. Il tutto, è molto ma molto deresponsabilizzante. Ragione ha sicuramente Ainis quando scrive che l'uguaglianza (e sta pensando a quella economica) è anche «una questione di misure». Infatti, «troppa eguaglianza significa nessuna libertà, significa un egualitarismo alla cinese, quando il presidente Mao imponeva a tutti lo stesso stipendio, lo stesso appartamento, la stessa casacca verde. Troppo poca implica, di nuovo, una schiavitù di fatto, l'asservimento del più debole al più forte. Oltre a minacciare la crescita economica, che sta a cuore a tutti, non solo ai liberali doc». In verità, la crescita è minacciata proprio dall'egualitarismo, che, livellando stipendi e emolumenti, mortifica le migliori energie e non premia il merito. Quanto alla troppo poca eguaglianza, essa, in un sistema libero e con ampia mobilità, e sempre che non coincida con la povertà assoluta, può essere addirittura uno stimolo, come si è detto. Mentre, al contrario, una redistribuzione delle risorse da parte dello Stato non solo genera quasi sempre effetti perversi, ma è anche profondamente ingiusta perché finisce per favorire le minoranze organizzate e gli individui che meno se lo meritano (non essendosi dati da fare, pur potendolo, per superare la loro condizione).Ovviamente, questi principi generali liberali vanno calati nella realtà con buon senso e pragmatismo, valutando ogni singola situazione e calibrando interventi e (soprattutto) non interventi. Quello che però è certo è che l'ingegneria sociale, anche nelle forme soft a cui ci siamo abituati, quasi mai riesce a mantenere le promesse di felicità che fa. Non libera, ma incatena ulteriormente l'umanità.