Avete presente quanto vi mette in imbarazzo vostro padre, vostra madre o anche solo vostro fratello maggiore quando scippa un pezzo del vostro gergo? Quando se ne esce con "bella zì" o un antico "sghicio" che ti gela il sangue? Tipo un politico che usa come hashtag #ciaone. Ecco Questi giorni di Giuseppe Piccioni, in concorso a Venezia 73 e in sala dal 15 settembre, ha quel sapore là. Del tentativo lodevole di affacciarsi in un mondo finora sostanzialmente ignorato da lui e dai suoi colleghi autori (in favore delle commedie), ma senza grazia né voglia di capire davvero. Non è in cattiva compagnia, il regista. No, perché a quell'età post-adolescenziale tra maturità e università si erano già rivolti, fissandosi sui 18enni, Gabriele Muccino con L'estate addosso e Piuma di Roan Johnson (entrambi qui a Venezia 73: uno nella sezione "cinema in giardino", l'altro in corsa per il Leone d'Oro). E chi più - Muccino e Piccioni -, chi meno (Johnson) mostrano la difficoltà di entrare dentro la testa, il cuore, la pancia di una generazione.Muccino la tratta con ciò che conosce (America, Roma Nord, amorazzi), Johnson con la commedia e la voglia di divertirsi seriamente, senza fare pedagogia, Piccioni con una passione letteraria e commenti musicali e della voce off che la rendono un'opera difficilmente comprensibile, per riferimenti sballati, sceneggiatura improbabile nei suoi sviluppi e non di rado nei dialoghi, un amalgama scarso tra le quattro moschettiere che partono alla volta di Belgrado perché una di loro decide inspiegabilmente - lo ammette persino lei - di mollare tutto e lavorare in un albergo serbo. Le altre l'accompagnano: flebile scusa per giustificare i soldi serbi nella compagine produttiva, così come il personaggio di Mina (Mina Djukic).E' tutto così Questi giorni, messo lì, appoggiato a una tesi che i giorni migliori vanno via senza che tu te ne accorga, con l'ossessione del viaggio (quelli di Muccino e Piccioni, quello mancato di Johnson) come passaggio della linea d'ombra, tra tappe forzate (il fratello prete, il campeggio tentatore) sia nella geografia reale che in quella dell'anima. Ma tutto è in quell'assunto di partenza: Piccioni e chi scrive con lui non hanno idea di cosa passi nella testa delle protagoniste. Tanto che il personaggio più riuscito del film, e non è un caso, è Margherita Buy. Si prende, l'autore, 25 minuti introduttivi dove cerca cifra stilistica e ritmo, provando uno sguardo immaginifico, iconico (con imbarazzanti "quadri" che vorrebbero essere cool e sembrano solo poster di boy-band sfigate) e ritardando l'inizio della storia in maniera incomprensibile. Poi il viaggio, la presunta trasformazione - tutto cala dall'alto, attrazioni, malattie, orientamenti sessuali, nulla appare naturale - l'inevitabile scissione di una sorellanza superficiale che diventerà altro.Non ci affezioniamo mai ai personaggi, tutti stereotipati (la tonta dolce e pura, la lesbica dura e amante della cultura, la malata che sfugge la cura, la bionda che fa quella sicura), non crediamo mai a ciò che succede. Sono terribilmente respingenti, seppur le interpreti sembrano sforzarsi nell'umanizzarle. Ma Piccioni le tratta come i suoi personaggi in costume del passato, monoliti emotivi. E così pure i comprimari. Prendete i ragazzi serbi del campeggio: chi parla mai così? Per non parlare delle citazioni - vedi il cinema America - che denunciano una sceneggiatura che alterna buchi che non si possono definire ellissi - personaggi e sentieri narrativi letteralmente dimenticati - a pretesti che affaticano il testo. Così si sprecano grandi attori - cosa dà Rubini al film? E Timi, così sacrificato e appiattito? - e buone intuizioni, sull'altare di un'amicizia poco credibile e di un voyeurismo nostalgico (è per colui che riprende che "questi giorni" sono finiti e prova disperatamente a recuperarli attraverso la vita degli altri). Ed è un peccato, perché ci vuole coraggio a dare ruoli centrali a quattro giovani donne (Maria Roveran, Marta Gastini, Caterina Le Caselle, Laura Adriani), ma poi si fa fatica a capire perché debbano essere infilate dentro ruoli così scomodi. Scene pericolanti, momenti di umorismo involontario. Ognuna porta dentro qualcosa che vuole ignorare: una malattia, un figlio, un amore, un errore. Ognuna rimane granitica nel proprio ritratto, persino nelle espressioni che non cambiano mai. E le ragazze ci provano: uno sguardo, un gesto, un sorriso provano a mettere la firma su qualcosa di diverso. Ma la regia perde velocemente d'interesse per ciò che potrebbe essere interessante e complesso per seguire la facile svolta di sceneggiatura o, peggio, l'incerta ispirazione del cineasta. E ti chiedi per quale motivo nel nostro cinema a raccontare certe generazioni debbano essere uomini di 40 anni o 30 o anche solo 20 rispetto all'oggetto del loro racconto. E senza essere Truffaut, per intenderci. In un'Italia in cui la frattura generazionale ormai ha assunto dimensioni grottesche, dobbiamo "sopportare" ancora la normalizzazione e la categorizzazione dei "gggiovani". Ma parliamo di un cinema in cui gli esordienti hanno i capelli brizzolati: per l'età o il fango che hanno dovuto mangiare.Dispiace per Piccioni, che rispetto al recente passato si è anche sforzato di andare oltre se stesso. Ma l'impressione è che un certo tipo di cinema, generazione, visione non faccia più parte di questo mondo. La meglio gioventù continua a raccontare tutto il paese e l'impressione è che conosca solo i suoi vicini di casa. E c'è da sperare che almeno un paio dei cineasti rimasti a casa non vedano i film italiani in concorso in questo Venezia 73 (Piuma ha il suo valore ma meritava d'essere protetto come un tempo fu per Scialla). Non si riprenderebbero velocemente dallo stupore di non essere stati scelti. Come, d'altronde, noi.