Sta sbancando botteghini di mezzo mondo, soprattutto negli States e in Europa: il clamoroso successo di Top Gun Maverick (fin qui 700 milioni di dollari incassati) sembra smentire chi aveva celebrato il funerale delle vecchie sale cinematografiche, divorate dagli orchi di Netflix e dalla pandemia di Covid 19. Equiparate a musei egizi o a catacombe etrusche.

Ma oltreoceano i trionfi di Tom Cruise e del suo spettacolare giocattolo hollywoodiano suscitano riflessioni e polemiche che trascendono la settima arte. Ci si confronta sui simboli, ci si guarda allo specchio, si cede alla chiacchiera e alla logomachia e anche un film diventa il pretesto di contese ideologiche e battaglie di pensiero. No, i russi stavolta non c’entrano nulla, nessuna Guerra Fredda, i “cattivi” ( uno Stato indefinito che ruba una partita di uranio) sono solo un sfondo narrativo, un pretesto per abbandonarsi all’amata autoanalisi. La faccenda è tutta interna all’America, anzi, all’Occidente in senso lato.

Così intellettuali, filosofi, politologi si confrontano su un fenomeno inatteso ma in parte prevedibile: in quelle code chilometriche di boomer assiepati nei multisala dell’America profonda per assistere alle prodezze del pilota sessantenne Pete “Maverick” Mitchell, ci sarebbe tutto l’orgoglio dell’occidente bianco che reagisce allo smarrimento identitario e si riappropria dei vecchi, sani valori dell’eroismo della generosità e del coraggio, riesumando la favola più reaganiana di tutti gli 80. Come se negli ultimi 40 anni nel mondo non fosse successo nulla.

E questo ritorno alla golden age del vecchio Ronnie piace molto a John Nolte, polemista accuminato della destra repubblicana e animatore del sito Breitbart che si spella le mani davanti alla pellicola diretta da Jospeh Kozinski: «Il personaggio di Tom Cruise è eccellente, mica come quella mammoletta in pigiama di James Bond!». Già, il capitano Maverick è tetragono, nessuna crisi esistenziale, nessuna fluidità, nessun cedimento all’odiata cultura woke proprio come gli eroi una volta. Il sottrarsi alle implicite regole di politically correct che Hollywood impone ai suoi sceneggiatori, non poteva che mandare in visibilio gli ambienti conservatori, in prima linea contro il wokismo progressista. Ma come dimostrano i dati, il film riscuote un successo trasversale, lo spettacolo di effetti speciali all’antica, senza ritocchi digitali e la semplicità, quasi infantile della sua drammaturgia sono ingredienti artistici che non hanno colore politico.

Allo stesso tempo è innegabile che Top Gun Maverick celebri il testosterone e il kerosene trionfante, ossia il ring su cui, soprattutto negli Stati Uniti, da anni si combatte un ruvido scontro culturale e generazionale, gli stessi anni che hanno visto la nascita del movimento del metoo, con le sue campagne dilaganti, e su un altro versante con l’esplosione della questione ambientale oggi in cima all’agenda dei governi e dell’attivismo giovanile, soprattitto negli Stati Uniti.

C’è qualcosa di molto umano e vitale nello sfasamento che Top Gun Maverick ha con la sua epoca, la politica c’entra poco, forse è davvero il manifesto di una generazione sorpassata ma ancora aggrappata al potere, un trionfo del boomer, maschio bianco eterosessuale e, in senso lato, un esorcismo per allontanare il declino, un canto del cigno della virilità.

La pensa così, ma in chiave del tutto anti-empatica, la filosofa e scrittrice Melanie McFarland, che in articolo pubblicato su Salon liquida in modo irridente la questione, con il suo solito sgradevole talento: «È un omaggio all’invecchiamento di Tom Cruise e ai suoi testicoli! Sebra una pubblicità di farmaci per l’erezione, un genere di conforto per una generazione inquieta a causa della sua imminente obsolescenza».