Il ribelle di Hollywood compie oggi ottant'anni. Robert Redford li ha spesi bene e li porta anche meglio, col suo reticolo di rughe che non ha mai voluto ritoccare. Ci tiene a marcare la differenza dal popolo di Hollywood, «posto per gente rifatta, patetici cloni resi per sempre inespressivi in un'ultima illusione di giovinezza», come bollava lui stesso la fauna hollywoodiana in un'intervista di qualche anno fa.Redford divo e antidivo, militante ecologista, regista fieramente indipendente e nume tutelare del cinema indipendente americano. Appassionati di cinema a parte, non devono essere poi molti in Italia a sapere da cosa prenda il nome quell'istituzione universalmente rispettata che è il "Sundance Film Festival", la sagra del cinema indie che ha fatto scoprire al mondo registi come Quentin Tarantino, Roberto Roriguez, Jim Jarmusch, Steven Soderbergh. Viene dal nome di un celebre bandito, il Sundance Kid, personaggio portato sullo schermo nel 1969 da Robert Redford in quel trionfo di critica e pubblico intitolato appunto Butch Cassidy and the Sundance Kid, anche se in Italia il secondo nome si è perso per strada.Quando, alla fine dei '70, quello che era allora probabilmente il divo numero uno del cinema americano decise di abbandonare Hollywood per trovare rifugio tra i monti dello Utah, chiamò col nome del personaggio che lo aveva reso celebre l'Institute costruito per dare una mano al cinema indipendente. Dal 1991 ribattezzò così anche il Festival che aveva fondato nel 1978, in coppia con l'amico regista Sydney Pollack, con lo stesso obiettivo: spingere i cineasti creativi, permettergli di procedere senza piegarsi alle regole dell'industria del cinema. Piazzare una zeppa sotto le ruote dell'odiata macchina da dollari hollywoodiana, sulla quale il giudizio dell'attore e regista è senza appello: «Hollywood è il regno dell'apparenza. L'arte, quando c'è, è fortuita, e comunque sempre più secondaria».A conti fatti il vero grande ribelle del cinema americano è proprio lui, Robert Redford, figlio di un lattaio e di una casalinga, cresciuto nella California della Grande Depressione, ambizioni di artista coltivate nella Parigi ancora un po' hemingwaiana degli anni '50, attore dotato e poi, quasi di punto in bianco, divo per eccellenza. Quanto di più lontano ci si potesse immaginare, con quella faccia da Wasp baciato dalla sorte e dal successo, da un ribelle.Quando interpretò il Sundance Kid, Redford aveva già alle spalle una pregevole carriera, prima in tv, poi a teatro e dal 1962 a Hollywood. Aveva lavorato con attori leggendari come Marlon Brando, Natalie Wood e Jane Fonda. Aveva vinto un Golden Globe, nel '65, per il miglior attore emergente. Ma Butch Cassidy, diretto da George Roy Hill, lo tramutò di colpo da attore a divo. Al suo fianco c'era Paul Newman, considerato allora e probabilmente ancora oggi l'attore più bello di Hollywood a furor di popolo soprattutto femminile. Il solo fatto che a recitare con lui ci fosse un giovane altrettanto bello e per certi versi somigliante faceva notizia, circondava il nuovo arrivato di glamour, aveva quasi il sapore di un passaggio di consegne.Per tutto il decennio successivo Redford infilò un successo dopo l'altro, spesso con l'amico e coetaneo Pollack. Avevano già lavorato insieme nei '60 con Questa ragazza è di tutti. Nei '70 e '80 avrebbero girato insieme altri sei film alcuni con titoli da storia del cinema: Corvo rosso non avrai il mio scalpo, come da pessima titolazione italiana di Jeremiah Johnson, sul genocidio dei pellerossa, Come eravamo, sul maccartismo,  I tre giorni del Condor, sulle trame della Cia. Negli stessi anni Redford volteggiava da un set all'altro: Gatsby nel migliore dei tre film tratti dal capolavoro di Scott Fitzgerald, La stangata, ancora con Paul Newman e George Roy Hill, Tutti gli uomini del presidente, su Watergate, Brubaker, sulla bestialità del sistema carcerario a stelle e strisce.A vederlo allora, con quella bellezza da ultimo divo della Hollywood classica, mascella quadrata, occhi azzurri e chioma bionda, interprete di film quasi sempre premiati da incassi portentosi, si correva davvero il rischio di non accorgersi che quei film erano tutti coltellate contro un aspetto o l'altro dell'establishment americano, quanto di meno divistico e hollywoodiano si possa immaginare. Dovettero però prenderne atto anche i più miopi quando, nel '78, Redford piantò in asso la città degli angeli con annessa fabbrica dei sogni per andare a vivere nella wilderness dello Utah, iniziò a impegnarsi nelle battaglie ecologiste che non ha mai più abbandonato, si trasformò nel "Padrino del cinema Indie" e infine scelse di passare dall'altra parte della macchina da presa.Il primo film come regista, Ordinary People, in Italia Gente comune, dell'80, era di nuovo un'accusa per nulla comune o ordinaria scagliata contro l'America, stavolta però prendendo di mira non il potere, lo Stato, i servizi segreti, ma il lato oscuro della middle-class, la spina dorsale stessa dell'american way of life. Prese l'oscar e da allora Redford è stato più regista che attore. Ha diretto altri otto film: con l'età e le rughe non ha perso di mordente. Nella Regola del silenzio, del 2012, ha portato sullo schermo, e senza un filo di moralismo, la vicenda rimossa degli Weathermen Underground degli anni '70, l'unico gruppo rivoluzionario armato bianco che ci sia stato nella storia americana. Anche se la trama è leggermente annacquata rispetto al bellissimo romanzo di Neil Gordon, che comunque aveva lavorato come consulente alla sceneggiatura, quel film resta uno dei pochissimi casi in cui la cultura americana ha avuto il coraggio di misurarsi senza anatemi con la lotta armata degli anni '70.Il padrino degli indipendenti festeggerà il compleanno con la seconda moglie, di 22 anni più giovane, e probabilmente con qualcuno dei quattro figli, una sola dei quali, Amy ha scelto di seguire le orme del padre: attrice, regista e produttrice indie. Come il padre, sempre rigorosamente indipendente.