I vecchi e i giovani esce per l’editore Treves di Milano nel 1913. In realtà, il romanzo – «amarissimo», lo definì lo stesso Pirandello in una lettera a un amico – era in buona parte già uscito a puntate, come spsso accadeva, per il giornale “Rassegna contemporanea” tra il gennaio e il novembre 1909. L’edizione del 1913 risistema l’articolazione dei capitoli, rivede quanto era già stato pubblicato e lo completa.

Pirandello inizia a scrivere I vecchi e i giovani nel 1906, e sono passati poco più di dieci anni dalla “materia” del romanzo, che è l’esplosione del movimento dei Fasci siciliani tra il 1892 e il 1894, cioè tra l’inizio degli scioperi nelle campagne e nelle zolfare e le stragi di contadini e popolani fino all’instaurazione dello stato d’assedio e la repressione di massa, con l’arresto di tutti i dirigenti dei Fasci e centinaia e centinaia di militanti; lo stesso lasso di tempo che intercorre tra lo scandalo della Banca romana e la crisi del giolittismo, con l’avvento al governo di Francesco Crispi. Dieci anni soltanto.

Sembrerebbe perciò un po’ azzardato definire “romanzo storico” I vecchi e i giovani. Non è solo una questione di distanza temporale dai fatti narrati. Per dire d’un altro romanzo, I Viceré, mentre per De Roberto lo sbarco dei Mille del 1860 è il cuore e il filo di una vicenda che si è storicamente conclusa, per Pirandello è proprio nel ruolo “a parti rovesciate” del Risorgimento, e dei suoi uomini, che sta la materia narrativa.

Non è solo emblematico il personaggio di Francesco D’Atri, che ricalca proprio Francesco Crispi, e decide da primo ministro di porre lo stato d’assedio e il tribunale militare, lui che gli stati d’assedio li aveva vissuti da patriota perseguitato, lui che aveva tuonato contro la legge Pica e i tribunali speciali; ma c’è Mauro Mortara, il personaggio del vecchio garibaldino tutto d’un pezzo, che fu costretto a rifugiarsi da esule a Malta e ormai vive una sorta di esilio in campagna, dove custodisce i ricordi del periodo eroico di speranze, a rappresentare il nodo delle contraddizioni di quel momento: ostile ai movimen- ti sociali, che considera un pericolo per l’unità della nazione «Sbirro, vi giuro, andrei a farmi, vecchio come sono» –, fino a decidere di scendere in piazza con le sue pistolone per affrontarli, «armato come un brigante», finirà fucilato dall’esercito che lo scambiano per un rivoltoso: ormai i soldati sparano a tutto ciò che è rosso, come il gonfalone dei Fasci e come la camicia indossata da Mortara.

In questo stare dalla parte sbagliata, in questo morire dalla parte sbagliata, è tutta la problematicità del romanzo nei confronti del Risorgimento. L’epopea garibaldina è ormai solo un lontano ricordo, un vecchio patetico e fuor di cotenna, disconosciuto, almeno per quei soldati. E possiamo credere che uguale disconoscimento fosse anche per buona parte dei lettori di quel primo Novecento: la modernizzazione dell’Italia s’era compiuta altrimenti. Per buona parte dei lettori, i «fatti di Siclia» – l’insurrezione dei Fasci, la violenta repressione – sono ormai lontani; sono, per chi ne avesse voglia, solo “cronaca”. Una consapevolezza di unicità e irripetibilità degli eventi, doveva invece avere Pirandello. Il suo sguardo però è spostato verso una nuova «storia», quella di un movimento sociale della terra e del lavoro che si affaccia e costringe tutto e tutti a ripensarsi. Se a una «storia» appartiene, la narrazione de I vecchi e i giovani, è a quella dei movimenti sociali, delle insurrezioni del lavoro.

I vecchi e i giovani non era certo un romanzo “regionale”. Ma quando appare, la letteratura nazionale è di poeticità muscolare: Pascoli ha parlato di «grande proletaria» che si è mossa e deve farsi spazio nel mondo, e D’Annunzio – che Pirandello detestava per quel suo «linguaggio delle parole» – ha da poco celebrato la conquista di Cirenaica e Tripolitania con Le canzoni delle gesta d’Oltremare. I vecchi e i giovani appare perciò davvero come un romanzo «spaesato» ; senza amor di patria, parla di cose che sembrano non interessare il paese in quel momento, in quel tempo. Dopo i Fasci, la Sicilia – la divisione delle terre – non era più all’ordine del giorno, non era più «la» questione del paese.

Sciascia parlò di «romanzo storico senza senso della storia» se non quando spiegò meglio quel «senza senso della storia» e definì il romanzo fortemente «autobiografico». Autobiografico, io lo intenderei non tanto relativamente alle parentele di Pirandello i cui caratteri e le cui storie risorgimentali possono rintracciarsi tra i personaggi de I vecchi e i giovani – l’autore mandò le prime copie di stampa ai genitori per il cinquantesimo anniversario del loro matrimonio con una dedica: «Caterina e Stefano vivono da eroi» –, quanto all’autobiografia della Sicilia tra i Mille e il movimento operaio: una materia fantastica, propriamente. Sorprende perciò l’ottusità del giudizio che a caldo formulò Benedetto Croce: «Un senso di cose già molte volte viste e udite, e come logore e stanche». Cose molte volte viste e udite? Logore e stanche? Di che parla Croce? Movimento del lavoro e questione territoriale si combinarono in Sicilia con i Fasci come mai era accaduto prima e come mai sarebbe accaduto dopo. Questa fu l’epopea.

Al conflitto tra i vecchi e i giovani ( «Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani» è la dedica di Pirandello) che è un conflitto anche interiore tra le speranze della gioventù e le disillusioni dell’età, tra il “vecchio” Risorgimento ormai forma dello Stato, e forma della democrazia parlamentare, e l’affacciarsi dei “giovani” movimenti sociali – la materia del romanzo – , Pirandello pensava piuttosto come al «dramma della mia generazione».

E il «dramma» della sua generazione, come forse di ogni generazione che si affaccia al mondo e che ha la ventura di incontrarlo, era quello dell’esplosione di un movimento sociale – inatteso nella sua radicalità, cui non si era preparati – che rivendicava diritti e condizionando il presente poneva un’opzione sul futuro. Poneva pure un’opzione sul passato, sulla storia – il Risorgimento, l’Unità – per porne una sul presente. La cesura tra Pirandello e i Fasci siciliani è reale – e si può dire che la cesura fosse collettiva, nazionale: i Fasci, colpiti da una repressione brutale, scomparvero, tutta la loro esperienza si svolge nell’arco di trequattro anni – e talmente compiuta, talmente “biografica”, l’elaborazione di questa distanza, da costruirci una materia narrativa.

Eppure, la drammaticità di quel periodo – e lo schierarsi, le passioni, i conflitti, i percorsi e i pensieri individuali, dei personaggi e degli uomini, la brutalità e le speranze, mentre tutt’intorno sta nascendo un mondo, – esplode intera nel romanzo e rimane ancora oggi integra, dato che le domande individuali e collettive intorno all’esplodere di un movimento sociale si ripresentano sempre.

Quando si è davvero preparati all’avvento di un movimento sociale radicale?