Cinquant'anni fa, 8 marzo 1966: quel giorno esce l'ultimo numero di un settimanale unico, irripetibile, straordinario, "Il Mondo" di Mario Pannunzio. Ha compiuto diciassette anni e qualche mese, il primo numero, infatti, nasce il 19 febbraio del 1949. A quel settimanale, dalla grafica modernissima e insieme di gusto antico, che coniuga linguaggio scritto e "visivo" (maniacale la cura e il "taglio" delle fotografie), e che tanto deve a Leo Longanesi e al suo "Omnibus" (sia Pannunzio che Arrigo Benedetti a quella formidabile scuola si sono formati), è dedicata una bella mostra storico-documentaria e didattica allestita presso la Biblioteca Civica Centrale di Torino (via della Cittadella 5).Il professor Pier Francesco Quaglieni, anima, cuore e motore del "CentroPannunzio", racconta: «Scopo della mostra è dar conto di che cosa fu il settimanale di Pannunzio e soprattutto verificare, sulla lunga distanza, il valore di quell'impresa sulla quale molti hanno scritto e discusso».  Sempre Quaglieni dobbiamo il ricordo di quanto scrive, a caldo, lo storico Rosario Romeo, il più attento e meticoloso studioso e conoscitore di Cavour (e, coincidenza significativa: alle spalle della scrivania di Pannunzio, c'era appunto un grande ritratto del «grande tessitore dell'unità d'Italia», come lo definisce Denis Mack Smith). "Il Mondo", commenta Romeo, «apparve in un momento di grave crisi politica e intellettuale del nostro Paese, e divenne subito un segno di unione e di richiamo per gran parte dell'intelligenza libera italiana. Attorno a Pannunzio si riunì in breve un gruppo di intellettuali tra i più impegnati moralmente e politicamente che conosca la storia italiana».In breve tempo "Il Mondo" si sa imporre come un qualcosa di imprescindibile nella cultura italiana del tempo: un modello di giornalismo che esercita anche una funzione morale, culturale e politica "altra" rispetto a quelle delle due "chiese" dominanti, la cattolica e la comunista.Eccoci dunque, addentrandoci negli spazi della mostra, immersi in quella speciale atmosfera che si doveva respirare nella sede de "Il Mondo", in via di Campo Marzio al 24: i volti e i nomi di Pannunzio e di Ernesto Rossi, l'unico col "diritto" di una stanza per sé, dove nascevano e prendevano forma le sue formidabili inchieste "scandalusie".  E poi Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, don Luigi Sturzo, Ennio Flaiano, Alfredo Mezio; e ancora: Achille Battaglia, Guido Calogero, Francesco Compagna, Carlo Ludovico Ragghianti, Antonio Cederna, Umberto Calosso, Arturo Carlo Jemolo, Leone Cattani, Altiero Spinelli, Ignazio Silone, Lionello Venturi; Carlo Antoni, e la sua rubrica "Il tempo e le idee"; Vittorio de Capraris con le sue "Ceneri e faville", firmateTurcaret; c'è Mino Maccari, che ogni settimana assicura almeno cinque irresistibili vignette; Amerigo Bartoli, che - testimonia Flaiano - «sfiorava col ridicolo personaggi incrollabili, dava colpi maestri al cattivo gusto, all'esibizionismo?»; e gli allora giovanissimi Angiolo Bandinelli, Giovannino Russo.  Tutto il meglio di quegli anni approda e transita sul "Mondo".Per non dire della "rivoluzione" dell'uso dell'immagine, della fotografia: il settimanale ne fa abbondante e sapiente uso, almeno quindicimila e di grande formato, quindici, venti ogni numero; e attentamente studiate e "tagliate" da Pannunzio, con il metro da sarto sulle spalle, e con lui Flaiano e Mezio. Ricorda Giulia Massari: «Una delle caratteristiche del giornale è una perfetta rispondenza fra scrittura e fotografia». Giornalismo fotografico e giornalismo scritto su "Il Mondo" diventano un tutt'uno; e nasce così un genere fotografico che appunto viene definito «foto da "Mondo"».Chi visita la mostra si prepari a qualche amara riflessione.  Le mie sono riflessioni un po' amare.  La mostra in sé è perfetta, bravissimi sono i curatori; e proprio questo è il guaio. Ci riporta a un mondo di cui sembra essersi smarrita la memoria, un "pantheon" radicale, autenticamente liberale e perciò libertario, "borghese" nel senso più vero e profondo che ci si ingegna a mortificare e cancellare; spesso riuscendovi (e per fortuna che caparbio, carsicamente, rispunta quando meno te lo aspetti). Ma in fondo c'è una logica: ignorare la nostra storia spiega l'attuale presente, e pregiudica il nostro futuro.Il nostro presente? Si può per esempio fantasticare su cosa Pannunzio e "Il Mondo" avrebbero scritto e pubblicato (ma anche il "Tempo Presente" di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, o "Il Ponte" d Piero Calamandrei), a proposito dei tempi che ci tocca di vivere, con gli "attori" politici, sociali, culturali che ci tocca patire.  Questi tempi di sistematica "rottamazione",  dove la politica e la cultura si riducono a selfie e 140 caratteri di twitter."Italia di minoranza", s'usa dire di quel pantheon; certo:  maggioranza non è mai stata. Eppure si può dire che quell'Italia, molte volte nell'immediato sconfitta e mortificata, alla lunga ha vinto.  E' quell'"Italia di minoranza" che aveva (e ha)  ragione; ed è grazie a quell'Italia se la barbarie non ha definitivamente trionfato, se almeno in parte è stata contenuta.  Ma quanto ancora ci sarebbe bisogno di un "mondo" come quel "Mondo", che tuttavia non avrebbe vita facile, come del resto non ne ha mai avuta.Salvemini, che di quel "mondo" fa parte,  ci ricorda che la storia va intesa come una sorta di "arma" capace di generare coscienze critiche, a patto ovviamente di saperne ricavare il giusto senso che ne può venire: «La consapevolezza che nel venire a sapere che la propria realtà non è l'unica possibile, che si possa sperimentare quel salutare senso dell'irrequietezza con il quale tutto comincia».In quest'affermazione c'è molto del senso, della "missione" che Pannunzio e i "suoi" si sono dati con l'avventura del "Mondo".Se è così, allora ben si comprende come siano stati italiani di un'Italia che neppure oggi c'è, "stranieri" di un paese sognato e desiderato; di un paese che chissà se mai avremo la ventura di abitare. «Persone - rubo la definizione a Marco Pannella - di altri tempi, speriamo futuri».