Luglio del 1979. Mi telefona da Palermo il vicequestore Giorgio Boris Giuliano. «Puoi spedirmi», mi chiede, «una copia di quella tua vecchia inchiesta sui cugini Salvo, gli esattori siciliani? L’avevo tra le mie carte, ma non riesco più a trovarla». «Certo», rispondo. Aggiungo incautamente: «Perché? Ci sono novità?». E lui: «Se anche ci fossero, credi che potrei raccontartele per telefono? Svegliati. Quando vieni a Palermo ne parliamo». Di che cosa si tratta? Dodici anni prima avevo pubblicato su l’Astrolabio un lungo articolo su Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori in odore di mafia che, con il voto favorevole dell’intera Assemblea regionale, lucravano un aggio del dieci per cento sulle tasse pagate dai cittadini siciliani. Nel 1970 Giuliano aveva indagato sul loro conto, sospettandoli, tra l’altro, di essere implicati nella scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Se, a distanza di nove anni, riapriva le indagini sui due esattori e sul caso De Mauro, rapito e ucciso dalla mafia, secondo Giuliano, perché aveva scoperto l’origine mafiosa ( per conto terzi) del falso incidente d’aereo che aveva causato la morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, qualcosa di nuovo doveva esserci. E c’era, anche se ci vorranno ancora cinque anni perché Giovanni Falcone provi l’appartenenza dei Salvo alla cosca mafiosa di Salemi e spicchi nei loro confronti un mandato di cattura. Ma Giuliano non proseguì le indagini sui due cugini. Il 21 luglio esce di casa ed entra nel bar d’angolo da solo, dopo avere ordinato all’autista e guardia del corpo di aspettarlo vicino alla macchina. Ordina un caffé e si accinge a berlo. E Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, uomo di punta di Cosa nostra e killer di provata esperienza, compare alle spalle del vicequestore e lo colpisce con una serie di colpi di pistola in rapida successione. I primi alle spalle e il colpo di gra- zia quando Giuliano è a terra. La mafia si è liberata di un pericoloso nemico.

Ma chi era Giuliano? Un mastino come Jack Petrosino, il poliziotto italo- americano ucciso anche lui dalla mafia settant’anni prima? Un’analogia soltanto apparente. Petrosino era un uomo rozzo e incolto, poliziotto per istinto, svelto di mano e di pistola come i suoi avversari della “Mano nera” americana. A naso, aveva capito che le radici dell’organizzazione mafiosa statunitense erano “made in Sicily”. Ed era venuto a Palermo, da solo, per indagare sul fenomeno. Ma l’iniziativa fu giudicata una sfida dai mafiosi del tempo. Appena sbarcato in città, nella popolosa piazza Marina, fu ucciso con un solo colpo di pistola sparato da mano esercitata.

“SACCO” DI PALERMO E NARCOTRAFFICO

Di tutt’altra pasta Giuliano. La mafia non è più quella del 1909 e lui non è, come Petrosino, uno sceriffo solitario. In diciassette anni di servizio a Palemo vede di tutto e indaga su tutto, dalla guerra a colpi di tritolo tra i clan di La Barbera e di Torretta alla strage di viale Lazio, dalla morte di Mattei alla scomparsa di Mauro De Mauro. Dall’insorgenza della mafia di Corleone, guidata da Liggio, Riina e Provengano, in marcia verso la conquista dell’intero territorio mafioso siciliano, all’alleanza tra i clan corleonesi e quelli catanesi. E, soprattutto, al traffico di droga. Quando Giuliano arriva in Sicilia, la mafia ha cominciato a trasferirsi dalla campagna in città. Non è più quella del feudo, dei mezzadri e delle lupare. È quella del “sacco di Palermo”, delle grandi speculazioni edilizie, dell’abbattimento delle splendide ville in barocco per la costruzione di anonimi e brutti caseggiati. E ha scoperto l’importanza e la convenienza del narcotraffico. Giuliano intuisce che il “clan dei marsigliesi” ha perso il monopolio in Europa della raffinazione dell’eroina e che le raffinerie della droga si sono trasferiti dalla costa azzurra al palermitano. Sequestra all’aeroporto di Punta Raisi due valigie con 500.000 dollari. E nello stesso tempo, a New York, i federali scoprono un ingente carico di eroina raffinata proveniente da Palermo. È la prova che la droga si raffina in Sicilia e dalla Sicilia si diffonde in Europa e negli Stati Uniti.

Quando Giuliano entra nella squadra mobile, i pentiti non ci sono ancora e delle famiglie mafiose si sa poco. Gli investigatori lavorano in condizioni precarie, senza un coordinamento efficace, affidati alle iniziative personali e alle soffiate di qualche confidente. Giuliano introduce tra i suoi collaboratori, che l’idolatrano ( ma lui minimizza, ridendo) il lavoro d’équipe. Assegna a ogni poliziotto compiti e responsabilità precise. Controlla capillarmente il territorio palermitano, opera una mappatura delle famiglie mafiose, crea un archivio che va sempre più colmandosi di preziose informazioni. Collega persone, avvenimenti, indizi. Si inchioda per ore al tavolo di lavoro, gira per Palermo e per l’Italia, va e viene dagli Usa e dal Canada, alla ricerca di collegamenti tra “Cosa nostra” siciliana e la mafia degli Stati Uniti. Collabora attivamente con i colleghi d’oltreoceano. Usa la penna e il cervello molto più della pistola che pure sa adoperare alla perfezione. In diciassette anni, passo dopo passo, arriva al centro del crocevia che collega pregiudicati e insospettabili, mafia, grandi affari interbancari, banche, droga, politica, potere. È un ' punto di non ritorno'. Lo sa ed è guardingo. Ma non basta. Al momento buono, il killer fa il suo lavoro con professionalità esemplare.

DA MESSINA A PALERMO

In quel maledetto 21 luglio le agenzie di stampa trasmettono con grande evidenza le prime notizie sull’omicidio. Le leggo sulla telescrivente della sala stampa della Camera dei deputati. E piango, perché Giuliano era uno dei miei più cari amici, dai tempi del liceo. Che sarebbe diventato un giorno un poliziotto famoso, nella Messina dei primi anni cinquanta del secolo scorso non lo si sospettava di certo.

Come non si sapeva di quel suo secondo nome, Boris, che lui allora teneva nascosto. Per noi, suoi coetanei e amici, era soltanto Giorgio, uno dei nostri, uno dei giovani che, tra una lezione all’Università e una sosta al bar, cercavano più o meno consapevolmente la propria strada. Giorgio era intelligente e ricchissimo di “humour”. Piccolo e scattante, era una delle punte più apprezzate della squadra universitaria di basket. Come facesse ad arrivare al canestro era un mistero. Ma ci arrivava, e spesso, con balzi incredibili che mandavano in visibilio i suoi fans. Ci vedevamo quasi ogni giorno, Poi, dopo la laurea, le nostre strade si divisero. E nel 1962, inaspettata, la notizia: a trent’anni suonati, Giorgio aveva vinto il concorso in polizia ed aveva chiesto di essere mandato a Palermo. Dopo un corso di specializzazione in America ( Fbi e Dea, l’ex Narcotic bureau, resteranno suoi punti di riferimento costanti), il neo- commissario si catapulta nel capoluogo siciliano con la stessa foga che manifestava sul campo di pallacanestro. Prima alla sezione omicidi, della quale diventa rapidamente il capo, e poi alla guida della squadra mobile con il grado di vicequestore.

IL POLIZIOTTO E IL GIORNALISTA

Rivedo Giorgio alla fine degli anni sessanta, quando l’Astrolabio mi spedisce in Sicilia per una serie di servizi sulla mafia. Naturalmente, è la prima persona che incontro. E che vedrò spesso nelle mie escursioni a Palermo. Grande cordialità e antichi ricordi. E poi passiamo al sodo. Lui fa subito una premessa: «Intendiamoci fin dall’inizio. Ci sono delle cose che non ti posso dire e che non ti dirò, neanche sotto tortura. Altre che ti dirò, ma che tu dovrai impegnarti a non scriverne. Se lo farai anche una sola volta, verrò a Roma a romperti la faccia e la nostra amicizia finirà lì. E altre ancora di cui potrai farne l’uso che vorrai nei tuoi articoli». Un patto rispettato in pieno dalle due parti. Ma il commissario non è cambiato. Non faresti una carriera più rapida e sicura in una sede diversa, magari a Roma? Un lampo di malizia negli occhi e poi: «Se si decide di fare il poliziotto, ci si deve mettere in testa di arrestare i delinquenti che a Palermo, certo, non mancano. A Domodossola mi sarei sentito un disoccupato». Semplice, vero? E per dimostrare l’assunto, proprio in quei giorni consegna alla magistratura un rapporto esplosivo sul traffico degli stupefacenti che prelude all’arresto di ventuno grossi nomi della mafia siculo- americana e a un processo da prima pagina. Sul banco degli imputati siedono John Bonventre, vicecapo della “famiglia” Bonanno, Frank Coppola ( detto “Frank tre dita”, perché le altre due della mano destra le aveva lasciate incastrate in una cassaforte che non riusciva ad aprire, anni prima a New York), Frank Garofano, il capomafia siciliano Giuseppe Genco Russo, Diego Plaja, Vincent Martinez, Sasà Vitaliti, Gioé Imperiale. Assenti, Joseph Bonanno, alias Joe Bananas, Magaddino, Santo Sorge e numerosi altri irreperibili, in Sicilia e in America. Sono udienze incredibili. Nessuno sa niente, nessuno ha fatto niente. Garofano, arrestato personalmente da Giuliano, cade dalle nuvole nel vedere l’ingente capitale in dollari e in lire custodite nella sua cassaforte a muro. «Ma chi ce li ha messi?», esclama. Vitaliti risponde al giudice che l’interroga su un lontano episodio: «Non so chi mi abbia sparato contro a New York nella notte di San Silvestro di trentuno anni fa. Era una notte di festa e io ero sulla porta del mio store. Forse qualcuno l’ha fatto per allegria». E nessuno, naturalmente, sa niente di droga.

Il processo si conclude, come avveniva allora in quasi tutti i processi per reati di mafia, con una lunga serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Giorgio non è sorpreso, soltanto amareggiato. Ironizza: «I giudici che si occupano di mafia dovrebbero andare a prenderli in Alto Adige». Non era ancora la stagione dei maxiprocessi, delle condanne esemplari e del sacrificio di eroici servitori dello Stato come Chinnici, Terranova, Falcone e Borsellino. Intendeva dire che, inevitabilmente, i magistrati che vivevano in Sicilia, che avevano famiglia in Sicilia, erano i più esposti – se non a pressioni vere e proprie – a condizionamenti psicologici ai quali era molto difficile sfuggire. «E ora», aggiunge Giorgio, «andiamo a raccoglierli col cucchiaino». E’ buon profeta. Pochi giorni dopo, Gioé Imperiale, il “re delle pompe di benzina”, cade sotto il piombo di altri mafiosi. È il primo di una serie che negli anni successivi si allungherà in modo impressionante.

Fra gli episodi che Giuliano mi racconta, autorizzandomi a scriverne, ce ne é anche uno singolare, sintomatico del silenzio che cuce le bocche degli “uomini di rispetto”. Gli era stato chiesto di andare a interrogare in carcere il vecchio capo mafia Giuseppe Genco Russo per una vicenda tutto sommato banale: un grosso abigeato consumato nelle zone siciliane che Genco Russo conosceva bene. Non può dire di no, ma va all’Ucciardone a malincuore. Sa che non caverà un ragno dal buco. Appena si apre la porta della cella, il detenuto, quasi cieco per una cateratta, sa già chi è il suo visitatore. Non ha bisogno di guardarlo: «Buongiorno, commissario». E Giuliano: «Buongiorno, zù Peppi. Ci avissi a fari nu paru ‘ i dumanni supra a certi vacchi ( dovrei farle alcune domande su certe vacche)». La risposta è raggelante: «Vacchi? E chi ssu ‘ i vacchi? ( che cosa sono le vacche?)». Genco Russo nega l’esistenza della razza bovina. E a Giuliano non resta che salutare ed andarsene: «Grazie, zù Peppi e arrivederci».

Perché viene assassinato Giuliano? Non è una vendetta. Cosa nostra non si vendica, non uccide quando sa che l’omicidio produrrebbe un contraccolpo da parte dello Stato, tale da mettere in pericolo l’organizzazione mafiosa. Può sembrare paradossale, ma la mafia uccide per paura, paura dei danni che l’avversario le può arrecare, più gravi e irrimediabili di quelli che le ha inferto nel passato. Così, Falcone non viene ucciso per aver fatto parlare Buscetta e per l’organizzazione del maxiprocesso, ma per ciò che avrebbe potuto fare al ministero di Grazia e Giustizia e, più ancora, alla guisa della Direzione Antimafia. Così, Giuliano viene ucciso più per le sue intuizioni che per le sue azioni, perché, continuando a camminare sulla strada che aveva tracciato, sarebbe arrivato a impartire dure sconfitte alla mafia.

«LA PISTOLA? E CHE LA PORTO A FARE?»

Giorgio sapeva che la sua vita era in pericolo. I segnali erano chiari. E il 29 aprile era arrivato un avvertimento inequivocabile. Pietro Marchese, mafioso di tutto rispetto della “famiglia” di Ciaculli ( si saprà dopo chi era l’autore anonimo della minaccia), aveva telefonato in questura: «Uccideremo Giuliano». Il vicequestore non se ne curava. Nei primi anni non girava armato. «Ma tu», gli chiedo mentre passeggiamo lungo viale della Libertà, «non hai con te una pistola? ». Lui sorride: «E che la porto a fare? Se decidono di farmi fuori non farei in tempo ad estrarla». Poi l’avevano convinto a portarla. Non gli è servita. Se avesse avuto una piccola frazione di tempo, forse si sarebbe salvato. Non gli è stato data. Aveva ragione lui.

Quando arriva in questura la notizia dell’omicidio, l’intera squadra mobile si precipita sul posto. «È vero, è lui, è Giuliano». Gli agenti piangono, ma prendono subito una decisione. Formano un cordone intorno al bar. Impediscono ai giornalisti, ai fotografi, ai curiosi di avvicinarsi al corpo del vicequestore. Nessuno lo vedrà da morto. Nessuna fotografia sarà scattata sul cadavere. Giuliano dovrà essere ricordato vivo. Al suo funerale partecipa mezza Palermo.