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La sola cosa sbagliata nell'autobiografia di Bruce Springsteen, uscita il 3 ottobre scorso contemporaneamente in mezzo mondo, è il titolo, del resto scontato: Born to Run (Mondadori, pp. 536, euro 23.00, traduzione di Michele Piumini). Avrebbe dovuto chiamarsi Follow That Dream, come il classico di Elvis di cui Springsteen propone spesso dal vivo una cover tanto rimaneggiata da risultare irriconoscibile. La parola chiave, nella musica come nella vita di Springsteen e dunque anche in questo libro, è questa: "sogno". La storia del ragazzo proletario di Freehold, New Jersey, messo al mondo e cresciuto da una madre italiana solare e da un padre irlandese ombroso, pieno di rabbia e risentimento, è la parabola di un sogno inseguito e raggiunto. Ma le sue canzoni sono una panoramica sugli incubi e sulle privazioni da cui spesso parte chi insegue quei sogni. Mettono in musica il lamento di chi li ha visti traditi e sgretolati. Cantano il coraggio di chi riesce nonostante tutto a inseguirli di nuovo senza arrendersi. Quella del Boss è un'autobiografia sui generis, ricchissima di quegli aneddoti che da decenni il Jersey Devil racconta sul palco introducendo le sue canzoni e quasi povera di fatti. Quelli ci sono tutti, sia chiaro, ma ridotti all'osso, essenziali, spogliati di ogni aspetto pruriginoso o a rischio di pettegolezzo. Springsteen racconta sentimenti ed emozioni. Se mette in campo i fatti è per spiegare, illustrare o dettagliare quel percorso emotivo che, a sua volta, è l'origine della sua musica. Non significa che Born to Run sia un libro reticente. Quasi sempre i fattarelli da tabloid che pullulano nelle biografie o autobiografie delle rockstar sono un chiacchiericcio che permette di non dire nulla di significativo. Col Boss funziona la logica opposta. Che piaccia o non piaccia la sua musica, nessuno dovrebbe negargli l'onestà a prova di bomba sia come artista che come uomo. Il suo è anche un libro di confessioni, nel quale Springsteen rivela tutti i suoi lati oscuri: il rischio della depressione, eredità paterna sempre dietro l'angolo dal quale si è difeso con un prolungato lavoro d'analisi; i rapporti con le donne, resi per molto tempo difficili da un fondamentale machismo da working class di provincia e risolti solo dall'incontro con la moglie e complice Patti Scialfa, «una coppia di fuorilegge emotivi»; le asperità e qualche volta anche di peggio del carattere; il peso dell'educazione catttolica. Il rapporto conflittuale e profondissimo col padre era già stato descritto decine di volte nei racconti dal palco o nelle canzoni, ma qui Springsteen lo affronta per la prima volta a tutto campo. Indicando l'influsso determinante di quel rapporto in tutta la sua vita, e lo accosta a quello con la madre, quasi una controparte vitale del padre, un antidoto contro la sua cupezza. Ma pagine altrettanto intense sono dedicate agli amici di tutta la vita, allo scomparso Clarence "Big Man" Clemons, al "gemello" Steve Van Zandt e persino al primo manager Mike Appel, rapporto di lavoro e amicizia concluso nei '70 a da una lunga e drammatica vicenda processuale senza cancellare nel cantante un affetto sopravvissuto alla rissa legale. Ma anche quando parla dei maestri Bruce ci mette l'anima: l'omaggio a Elvis è tanto commosso quanto quelli dedicati ai compagni della sua vita. Ma al fondo, per Bruce Springsteen, c'è sempre la musica. La relazione che campeggia più di ogni altra è quella con la E Street Band. Si tratta in fondo di un modello quasi unico, pertanto ad altissimo tasso di coinvolgimento emotivo. Non è né è mai stata una band "democratica" i cui componenti sono almeno formalmente allo stesso livello. Bruce paga gli stipendi. Discute ma non permette che nessuno decida al suo posto. Se una cosa emerge con chiarezza libro è che il soprannome Boss è del tutto adeguato. Non si tratta neppure una band d'accompagnamento però, con musicisti che potrebbero essere sostituiti senza sforzo. Sul palco sono tutti determinanti e nella vita della star anche: un gruppo di amici e complici guidati da un Boss, una "banda", non solo una "band", che non ha mai cancellato del tutto il marchio delle Bar Bands del Jersey Shore. Bruce Springsteen non è mai stato "il futuro del rock'n'roll". Non ha aggiunto molto, ma ha riassunto, portato alle estreme conseguenze ed esaltato come nessuno prima l'eredità complessiva di un'intera e irripetibile età della musica, quella degli anni '50 e '60. Non è un caso se nel corso del tempo ha eseguito tante cover da far impallidire la più versatile cover band. Dipende dalla voracità dello Springsteen ascoltatore ma forse ancora di più dalla complessità dell'uomo. Born to Run mette in fila, come in una galleria, lo Springsteen ribelle innamorato degli Stones e quello che mantiene un conservatorismo working class alla Merle Haggard; un mattatore esibizionista come James Brown e un ragazzo introverso stile Hank Williams; l'erede di Elvis e quello di Dylan; l'allievo di Roy Orbison e di Van Morrison, entrambi molto citati e ancor più amati; un falco della notte da bar della costa, un perfetto family man, un cantautore impegnato nel solco di Woody Tutto questo Springsteen lo ha miscelato in un'alchimia perfetta, inseguendo consapevolmente un obiettivo, anzi un sogno, che gli ha permesso di tenere sotto controllo i suoi demoni e di diventare il più portentoso tra gli animali da palcoscenico: usare la musica per restituire al pubblico gioia, capacità di sognare e a volte di combattere per i propri sogni, dominare il palco come un maestro di cerimonie che trasforma i concerti in travolgenti feste collettive. Nel 1971 Don McLean cantava, in Miss American Pie, dei tempi in cui la musica riusciva a farlo sorridere, di quando già sapeva che, se ne avesse avuto l'occasione, avrebbe cercato anche lui di far ballare e di rendere felice la gente. Sembra una strofa scritta per Bruce Springsteen. Ne ha avuto l'occasione. Ci è riuscito e ci riesce da oltre 40 anni.