Circa vent’anni fa iniziava tra i critici letterari italiani il dibattito su postmoderno, postmodernismo e postmodernità: tra i protagonisti Remo Ceserani, uno dei maggiori studiosi di teoria e critica in Italia, di recente scomparso, e Romano Luperini, che nel 2006 si incaricò di decretare, nell’omonimo pamphlet, la fine del postmoderno, un movimento in realtà mai prodottosi in forme esplicite e consapevoli, qui da noi.

La letteratura d’impegno e il realismo, dopo l’ 11 settembre, sarebbero tornati in pieno vigore a scapito degli “agili cinismi” e dell’“ilare nichilismo” degli autori postmoderni. Ma a chi si riferiva Luperini, chi erano stati, i romanzieri postmoderni?

Forse i cosiddetti cannibali, forse Umberto Eco, forse i romanzieri neostorici: di sicuro il romanzo postmoderno in Italia non è mai decollato. Ma forse, in Italia, non è mai decollato il romanzo, con le eccezioni che non serve elencare.

Le motivazioni, tra gli altri, le approfondì Asor Rosa in un saggio sull’” anomalia italiana”: a differenza che negli altri paesi europei, la nostra borghesia non sarebbe stata così forte da imporre la propria forma di vita sul versante finzionale. Negli anni Zero si è cominciato a pensare che l’anomalia italiana fosse l’assenza di romanzi non tanto grandi a livello di portata culturale e simbolica extranazionale, ma grossi, e così è nata questa specie di smania del romanzone che deve obbligatoriamente superare le 300 pagine.

Buon ultimo, I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni (Mondadori), che oltre a essere un libro effettivamente grosso, visto che di pagine ne conta 600 e spicci, è anche parecchio postmoderno. Agile, in verità, non del tutto e nemmeno fino in fondo cinico, ma un libro di superficie, tutto incentrato su trama e peripezie.

Un simulacro (di romanzo), come nella definizione di Fredric Jameson. Con una caratteristica su tutte: il profluvio di personaggi, quasi uno per ogni microsequenza narrativa, cui non si fa in tempo ad affezionarsi che ne arriva un altro, e un altro, e un altro. Quindi una sorta di repertorio di tipi umani (il giovane frenetico e malinconico, l’adulto sciroccato e fuori controllo, l’artista sfigata e inquieta, il padre dongiovannesco e insoffribile, la madre morta o fuori scena) che restituiscono un quadro parzialissimo ma vivido di certa borghesia egemone (in spregio ad Asor) negli ultimi decenni.

Affrancata dal bisogno stringente di lavorare, perennemente in viaggio (Israele, Bali, India, Svezia, Berlino), con tanto tempo a disposizione per la ricerca delle radici e del vero sé. Tutto il contrario degli ultimi ( e direi unici) romanzi della passata stagione: Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco e Works di Vitaliano Trevisan, libri sui padri, in qualche modo, anche quelli, ma padri proletari, operai, bicicletta (comincia proprio così, Trevisan) e pedalare.

Non sempre, però, in Santoni la pletora di caratteri restituisce del mondo un’idea solo libresca (alla Luperini): sì, è vero, c’è il solito personaggio che dice “l’aura di Benjamin” (e chi sta parlando in quel momento, chi sembra volerci dire «la so la so?» ), ma ci sono anche momenti di schietto realismo, di fronte ai quali vien da chiedersi come abbia fatto l’autore a vivere così tante vite e conoscere così tante realtà.

Una specie di grande romanzo- google maps, con tanti luoghi descritti minuziosamente (piante incluse), e le droghe, i rave, le risse, un omicidio (un po’ splatter), una rapina sventata, i bar sulla spiaggia, il karate, a un certo punto c’è pure un trasumanare tipo Dante. E tanta gente che flirta o si accoppia, con romanticismo che i recensori dicono lirico e invece suona semplicemente desueto, sebbene temperato dal cinismo, pure quello un po’ di maniera: ormai la gente dei romanzi, quando c’è da scopare, scopa duro, formularmente.

E il problema non è, come ha scritto qualche recensore, che questo libro, alla fin fine, risulti noioso. Io giravo la pagina volentieri, e se ne ho girate 600, di un romanzo tutto trama, vuol dire che c’era pure empatia, a un certo punto, se non altro per alcuni tratti descrittivi particolarmente felici: le “domande di Rudra”, la trascrizione fonetica delle conversazioni tra Louis e Carletto che ha perso le consonanti perché i carcerati gli hanno spaccato i denti, la tristezza irrimediabile di Cristiana (vita e opere).

No, non è la noia, il problema: anzi. Avercene di pagine in cui ti annoi sul serio, come nel vero Grande Romanzo: cosa succede, a livello di mera azione, nell’Uomo senza qualità?

Difficilissimo farne un riassunto. Difficilissimo anche per I fratelli Michelangelo, perché tanto è sovraccarica la pagina di peripezie e dromomania, quanto poco coagula, come avrebbe detto Gadda.

Il pregio vero di un libro è quando ti fermi, mentre stai leggendo, e guardi in aria. In un libro in cui tutto è descritto con fluvialità a tratti ammirevole, e però niente è evocato, alluso, sottinteso, ciascun dettaglio anziché aggiungere toglie: libertà di immaginazione, di identificazione o, all’opposto, di straniamento. Qualcuno ha lamentato il potenziale disperso del personaggio principale, anzi, totemico: il padre da cui tutto muove e nei dintorni del quale tutto finisce, lui compreso (ma forse no). A me quel personaggio, come tutto il resto, pare poco riuscito per troppo, non per poco di vigore (sempre con Dante). Il padre è un ente così fantasmatico, specie se me lo vuoi per forza paragonare a quello eterno, che non lo vorrei veder nemmeno comparire in scena, figuriamoci in una messinscena. E non inattesa, straniata, tutt’a un tratto, ma preceduta da pagine e pagine non- conclusive (cosa dicevano gli alessandrini del mega biblìon?).

Per me Vanni Santoni, lo dico chiaro, è un grande narratore postmoderno: il più grande, oggi. Bisogna però decidere una volta per tutte se il postmoderno esiste (ancora), e, se sì, cosa dobbiamo farcene.