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«Se hai accettato di farti fotografare, devi essere contenta a posare, altrimenti dovresti lasciar perdere». L'affermazione di Katharine Hepburn ben esemplifica la predisposizione che dovrebbe caratterizzare il rapporto tra il mondo di Hollywood e quello della fotografia di scena, che a esso conferì popolarità e spessore. Hollywood Icons, fino al 17 settembre al Palazzo delle Esposizioni di Roma, si compone di oltre 160 ritratti provenienti dalla Fondazione Kobal – istituita nel 1990 allo scopo di promuovere lo studio della fotografia e oggi attiva nel finanziare incarichi di fotografi promettenti a inizio carriera – che catturano, in un'esposizione scandita per decadi, dagli anni Venti agli anni Sessanta, le immagini più note e accattivanti delle stelle di Hollywood: dal cinema muto – Charlie Chaplin e Mary Pickford – all'esordio del sonoro – Joan Crawford, Marlene Dietrich, Cary Grant e Clark Gable – per culminare, nel dopoguerra, con leggende della caratura di Marilyn Monroe, Marlon Brando, Paul Newman, Marcello Mastroianni e Sophia Loren.
Stretta e feconda fu la relazione che legò attrici e attori hollywoodiani all'obiettivo della macchina fotografica, in epoche in cui la maggior parte degli spettatori poteva vedere il film una volta sola ed era quindi attirato dalle foto scattate sul set o riprodotte sulle riviste. Per altro verso, inoltre, quelle che sarebbero diventate icone di Hollywood erano state fortemente trasformate dal sistema produttivo, di cui costituivano parte integrante e imprescindibile proprio i fotografi ritrattisti. Come luci e falene, divi e fotografi intrecciavano a doppio nodo le rispettive carriere e ambizioni, creando rapporti privilegiati e duraturi: così, se Greta Garbo, sulla cui immagine all'inizio lavorò Ruth Harriet Louise, accettò poi di farsi ritrarre quasi esclusivamente da Clarence Sinclair Bull, Rita Hayworth legò la propria fama al celebre ritratto scattato da Bob Landry per Life nel 1941, mentre Joan Crawford e Marlene Dietrich dovettero larga parte della fascinazione che esercitarono sui loro numerosi estimatori rispettivamente a George Hurrell e Adolph Zukor. Individualità che lo sfumato senza tempo di uno scatto strappa alla volitiva incostanza del pubblico per farsi memoria collettiva in cui confluiscono la grazia di Audrey Hepburn, la gioiosa sensualità di Marilyn Monroe, la ruvida fisicità di Marlon Brando e i baffi e l'eleganza di Clark Gable.
Giornalista, autore di oltre trenta libri sulla storia del cinema – fra cui The Art of the Great Hollywood Portrait Photographers –, John Kobal, durante gli anni Sessanta e in occasione dei frequenti viaggi a New York e Los Angeles cui dovette attendere in qualità di corrispondente americano della BBC, raccolse numerosi e preziosi cimeli cinematografici dagli archivi degli studi di Hollywood, la maggior parte dei quali andava, proprio in quegli anni, incontro al fallimento. Un incontro casuale avvenuto nel 1969 con George Hurrell spinse Kobal, dopo aver raccolto i negativi originali, a mettersi alla ricerca di quei fotografi di scena ancora in vita e a esortarli a produrre nuove stampe, esposte poi nelle mostre al Victoria and Albert Museum di Londra, alla National Portrait Gallery di Washington e al Los Angeles County Museum of Art. Una selezione di stampe realizzate dai fotografi stessi, insieme ad altre che risalgono al tempo degli studios, costituiscono l'essenza della mostra, estremo tributo di un fervido ammiratore alle ribalte sgargianti e alle mille luci del sogno hollywoodiano.