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I primi trent'anni del Novecento sono stati gli ultimi in cui la parola avventura abbia ancora avuto un senso. Dopo è venuta la Seconda guerra mondiale, l'estensione del dominio della tecnica, il post-umano: uno scenario dove non c'è angolo di mondo che non sia Occidente e dove la vita non sia ridotta a calcolo. Il corsaro nero (Neri Pozza edizioni) di Stenio Solinas è la storia di Henry de Monfreid (1879-1974): il racconto di una vita vissuta come un romanzo d'avventura, inseguendo il gusto romantico dell'impresa e dell'azzardo.De Monfreid è un avventuriero che si ignora: nel primo tempo della sua esistenza lo si direbbe più un fallito in patria che un capitano coraggioso. È coinvolto in una vicenda di truffe, ha alle spalle una convivenza finita malissimo, un figlio legittimo e un figliastro da mantenere, un rapporto controverso con il padre che ha abbandonato la madre e con il quale avrà sempre un rapporto di odio e amore. De Monfreid in sintesi è uno spiantato che ha bisogno di identità e di denaro. Non sa chi è, che cosa deve diventare. In lui non s'è prematuramente manifestata nessuna vocazione all'avventura. Non è come il giovane Jules Verne che cercò di farla al padre imbarcandosi come mozzo in una nave per partire verso le isole misteriose che descriverà, da adulto, solo con la fantasia visto che il vecchio se lo andò a riprendere al porto, trascinandolo a casa a calci nel sedere.Henry da ragazzo avrebbe voluto essere come tutti, omologarsi al gregge, vivere tranquillo nelle convenzioni borghesi della sua famiglia. Ma il destino usa la necessità per spingerti là dove diventi ciò che sei. La via per mare per lui è una fuga dalla realtà che ha conosciuto e con la quale non è riuscito a fare i conti. Ma è sufficiente che l'imbarcazione dove ha ottenuto un posto di agente presso un commerciante di cuoio e armi si lasci il porto di Marsiglia e la Francia alle spalle perché de Monfreid capisca in un attimo che quella è la sua vera vita.Il vento che batte la nave e il viso gli spazza di dosso come cenere «tutte le piccole, mediocri regole borghesi» in cui aveva chiuso i suoi istinti: «Scompariva il passato, quel passato nauseabondo... Con gioia feroce ne dispersi la cenere a pedate». Si lascia alle spalle, la sensazione di aver sbagliato tutto, di non aver mai cercato la propria strada, di essere sempre andato a rimorchio delle convenzioni sociali, delle abitudini consolidate. Fra l'ignoto in cui rischia di fallire e il conosciuto dove ha già fallito, è una scelta obbligata, ma mentre l'Oxus si lascia il porto e la Francia alla spalle, de Monfreid si rende conto che è anche una scelta liberatoria. Gli resterà però in bocca il gusto amaro dell'«istinto del gregge», come lo definirà, e che lo renderà sempre scostante e sospettoso verso gli altri europei d'oltremare, funzionari e commercianti, per i quali «la speranza del ritorno è l'unico conforto», che si cambiano d'abito due volte al giorno, gioiscono del rito quotidiano dell'aperitivo e di quello serale del poker e della manille e «con il pretesto della pelle nera credono di dover trattare gli etiopi a calci nel culo, come i negri del Madagascar e della Costa d'Avorio. Preferisco passare per duro che piegarmi a quella vita».La seconda vita di Henry de Monfreid, quella vera, si gioca in quella manciata di decenni che separano la Prima guerra mondiale dalla Seconda, in Africa, là dove ancora nei primi del novecento l'avventura è ancora possibile. Negli anni Venti de Monfreid si trasferisce fra la colonia francese di Gibuti, lo Yemen e l'Etiopia; di quell'area del Mar rosso ne fa la sua la sua Mompracem, centro nevralgico di traffici opachi: perle, armi, oppio che lui stesso consuma dandosi a visioni. Henry disprezza i colonizzatori però, lo infastidisce il loro senso di superiorità, il loro razzismo. Soprattutto gli inglesi non gli vanno a genio. Diventa osservatore partecipato del mondo altro in cui s'è immerso: impara la lingua degli autoctoni, si dà anche un nome arabo: Abd el-Hay, uno dei 99 dell'Altissimo. In odio agli inglesi e al loro Hailé Selassié, che lo ha cacciato dall'Etiopia spogliandolo dei suoi beni, stringe un'alleanza personale con gli italiani e rende loro dei servigi tanto da meritarsi medaglie e riconoscimenti. Gli inglesi non dimenticano - non dimenticheranno mai - e nel 1942 lo arrestano chiudendolo in un campo per prigionieri di guerra in Kenya.Questa nuda sequenza di fatti, qui solo inventariati con brutale sintesi, è raccontata da Solinas con la capacità narrativa di chi è in grado di restituire l'esotismo dei luoghi, la singolarità delle atmosfere, la complessità dei personaggi, a partire proprio dal protagonista di queste avventure. De Monfreid è una personalità sfaccettata, contraddittoria, equivoca; un fascio di esperienze, sensazioni, idee, tenute insieme da un vitalismo indomabile, dalla passione divorante per il mare, il viaggio, l'impresa, la voglia di rifarsi rispetto a una giovinezza frustrata da un ambiente mediocre di bottegai. In più c'è una fame d'adrenalina che non si spegnerà mai fino a spingersi nell'inoltrata maturità così da dilatare la giovinezza fin dentro la vecchiaia.La descrizione più precisa e vivida di De Monfreid la dà Marussia Lenni, figlia di russi bianchi fuggiti dalla Rivoluzione d'ottobre, che Solinas fa in tempo a conoscere ad Addis Abeba, dove Marussia è nata nel 1922: «Ho incontrato Henry de Monfreid all'inizio del 1942, avevo vent'anni, a un cocktail e poi a un pranzo all'ambasciata di Francia: un flibustier, c'est incontestable e molto interessante. Magrissimo, baffetti, occhi piccoli, i capelli bruciati dal sole, non bello ma un tipo?un uomo speciale con molti nemici, molto invidiato e molto detestato, si e insieme molto amato dai pezzi grossi arabi e somali. Odiava gli inglesi e gli inglesi lo odiavano. Era filo-italiano al cento per cento, detestava il Negus, ricambiato».Solinas invita a guardare a De Monfreid non come a un uomo in carne ed ossa ma come a un personaggio letterario alla Salgari, alla Dumas: contrabbandiere, lupo di mare, avventuriero, cacciatore di tesori. Ci invita a guardarlo sotto queste vesti perché sono le vesti che lo stesso De Monfreid volle vestire per calcare il palco di quella rappresentazione teatrale che è la vita: «Henry - scrive Solinas - vive la vita come un romanzo d'avventura, la modella quasi sulle pagine delle immagini che lo compongono, non sa resistere alla tentazione di scriverle in prima persona. È anche questo a renderlo accattivante. Perché ne rivela una sorta di estetica della giovinezza dove i conti con la realtà non tornano mai, perché non si gioca con le stesse carte».L'uomo astuto, il filibustiere, il manovriere, l'uomo duro a cui non la si fa sono solo le maschere indossate da un eterno ragazzo che ha fatto del romanticismo dell'impresa e dell'avventura la sua fede e la sua vita. Resterà un ragazzo anche da vecchio de Monfreid. Ha pubblicato decine di libri dove sono narrate la sua vita e le sue avventure ma dove accanto all'azione narrata con sapienza letteraria sono contenute riflessioni sul senso di quanto ha vissuto e gli è capitato. Di diaristi delle proprie imprese è pieno il mondo, dice Solinas, la singolarità di De Monfreid, ciò che ne fa un unicum, è la sua capacità di dar loro una prospettiva esistenziale, di illuminarle di un senso, di fornire alla sete d'avventura un perché.De Monfreid si candida per l'Accademia di Francia, ma non viene eletto. Lui che aveva sempre disprezzato formalismi e etichette in fondo ambiva a quel riconoscimento. Lo vedeva come il coronamento di un'esistenza e forse come la compensazione per quell'altro sé medio-borghese che dalla Francia era fuggito prima di lasciare posto all'avventuriero. Ma non se ne fa una malattia. E anzi come sberleffo incide un disco: Le dernier aventurier. Henry de Monfreid chante la mer si intitola. Gli piace anche quel ruolo, tanto che a novant'anni canterà ancora canzoni al Théatre du Vieux Colombier. Diventa anche il soggetto di un film: Les secrets de la mer Rouge dove Pierre Massimi fa la parte di Henry da giovane. «Le riprese durano cinque mesi, il tempo perché ci sia il naufragio del peschereccio su cui alloggia la troupe, il divieto di Hailé Selassié di girare in Europa».Henry viaggia sugli ottanta eppure accarezza l'idea di recarsi sui luoghi delle riprese, per rivedere se stesso e la sua Mompracem. Ma gli fanno capire che non è gradito: gli inglesi non lo hanno dimenticato, né i creditori. Ma si prenderà altre soddisfazioni: fa in tempo, per esempio, a vedere la fine dell'Etiopia di Hailé Selassié. Muore a novantacinque anni dopo aver parlato agli operai della Citroen, l'11 dicembre del 1974. «Morte tranquilla di un violento - scriverà Paul Morand per ricordarlo - temperamento passionale, inquieto. Bella figura, ben scolpita, sguardo fiero di giovane». È la più bella epigrafe per la sua morte. Di Henry de Monfreid invece Stenio Solinas ha raccontato la vita in un libro che sa di mare, di avventura, di giovinezza.