«Mio nonno non ha mai avuto l'intenzione di annunciare una dottrina, di erigere un sistema filosofico, o addirittura di raccogliere seguaci. I suoi sforzi erano diretti invece a provocare un domandare essenziale». Così scrive Arnulf Heidegger nella breve Premessa ad un volume uscito non da molto e che merita l'attenzione che la stampa ha finora dedicato per lo più solo ai libri che peroravano la tesi opposta a quella qui difesa con molti solidi argomenti: Friedrrich-Wilhelm von Hermann e Francesco Alfieri, Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri (Morcelliana, pp. 459, euro 35). Nel libro si vuole infatti provare che Heidegger, da una parte, non era affatto antisemita, o quanto meno alcune espressioni antigiudaiche che si leggono nei "quadrati laccati in tela nera" o "taccuini" vanno inserite nella sua più ampia critica di tutta la cultura occidentale, di cui l'ebraismo è parte ma non esclusiva;  dall'altra, che egli fu molto critico di Hitler e del nazionalsocialismo e che anche nei Quaderni ci sono passi espliciti a tal riguardo omessi da chi ha animato il recente dibattito, all'estero e poi anche in Italia.Restituire "verità" ai fatti oltre le omissioni e strumentalizzazioni mediatiche: questo lo scopo del libro. Il quale porta una doppia firma, come l'introduzione, che è molto puntuale e chiarificatrice. Il piatto forte di esso è però senza dubbio la lunga e filologica "analisi storico-critica" condotta sul testo dei quaderni da Francesco Alfieri, un religioso che, oltre a essere docente della Lateranense, è collaboratore stretto a Friburgo di Friedrich Von Hermann, l'altro autore del volume. Von Hermamm, oltre ad essere stato assistente privato di Heidegger negli ultimi anni della sua vita, fu designato dal filosofo stesso a essere il coordinatore filosofico dell'edizione completa delle sue opere, quella in cui sono usciti i Quaderni neri. Nel ricco libro si trova però anche altro materiale, fra cui un denso saggio di "necessarie chiarificazioni" di von Hermann stesso, una pacata discussione e critica delle interpretazioni più controverse del dibattito sui Quaderni a firma del filosofo cattolico Leonardo Messinese e, in appendice, un'utile ricostruzione di Claudia Gualdana di come esso si sia svolto sulla stampa italiana. Molto materiale, quindi, con l'impressione finale dell'incomunicabilità, o almeno della difficoltà di comunicazione, fra due mondi molto diversi fra loro e con una diversa impostazione concettuale: quello dei media e quello accademico-professorale nel senso più classico del termine. Due mondi che entrano in questo caso in frizione perché la tesi che fa notizia, giornalisticamente efficace, cioè che Heidegger era antisemita, è sicuramente molto rozza nell'ottica di un "domandare essenziale" e non può quindi trovare per principio corrispondenza adeguata nei test incriminati. Anzi li deve in qualche modo mistificare, arrivando addirittura a censurare passi che potrebbero entrare in contraddizione con la tesi sostenuta. In questo caso quei passi che contraddicevano la tesi principale e che pure, come questo libro dimostra, sono presenti nei Quaderni neri. Hanno sicuramente ragione gli autori del libro a protestare contro questa omissione, che è in effetti contro ogni deontologia, sia quella dello studioso sia quella del giornalista, e come tale va sicuramente apostrofata. Ma detto questo, a me sembra, che la loro difesa di Heidegger non regga. Ovvero, può anche essere condivisa  da un punto di visto filologico, ma non convince da altri punti di vista, in primis quello morale. Heidegger, ci piaccia o meno, è responsabile: davanti alla storia, ma anche davanti alla filosofia. Responsabile è, in un senso più ampio, la sua stessa filosofia, perché il filosofo non può vivere in un aere separato e chiedere delle garanzie e degli ambiti di irresponsabilità che agli altri individui non sono concessi. Quello di Heidegger è senza dubbio un "domandare essenziale", e l'uomo non sarebbe tale se (almeno in alcuni casi e attraverso la mediazione di grandi pensatori come il filosofo tedesco)  non fosse capace di pensare in modo "essenziale". Questo non significa però che la cura pastorale dell'essere sia un'attività superiore alle cure quotidiane, che esista una "differenza ontologica" che separi e gerarchizzi l' "esistenza autentica" da quella che tale non è. In Heidegger questo accade proprio mentre egli afferma che non sarebbe possibile. "Esistenza autentica" e "inautentica" costituiscono entrambe la nostra umanità (Heidegger direbbe il darsi dell'Essere come esser-ci), ma è infondato pensare che il rapporto fra di loro  sia di "alto" e "basso", "più" e "meno", altura "ontologica" e deiezione "ottica". Questa è metafisica pura, per il semplice fatto che è un taglio che si compie nella realtà, che è già sempre data e va solo rispettata. E che non può essere "fondata" o pensata nel suo "fondamento" dall'interno. Non c'è un Dio che ci può salvare perché siamo già sempre in una dimensione di salvezza e dannazione insieme. Irresponsabilità verso il mondo di una filosofia significa che tutto diventa indifferente di fronte al "domandare essenziale", tutto è ugualmente giustificato perché la morale è nulla e l'ontologia è tutto. In sostanza, una scelta vale l'altra. Nessun ente o soggetto è nell'essenziale: non lo sono per Heidegger gli ebrei, ma nemmeno, come ci dimostrano gli autori di questo libro, i nazisti. Se perciò nel quotidiano, che non conta, è tutto uguale, si può anche mettere in gioco la propria filosofia, prostituirla. Ed è questo in sostanza, a mio avviso, ciò che ha fatto Heidegger, sin dal discorso di rettorato. Ha giocato, per opportunismo e ambizione, coi termini del suo pensiero; è sceso nel campo empirico sapendo di stare in quel campo ma alludendo ai concetti della sua filosofia e usando ambiguamente i termini del suo lessico. Convertendo in biologici e razzistici i termini che sempre ambiguamente si prestavano di una filosofia che pure aveva radicalmente criticato ogni naturalismo. La via d'uscita era già pronta, era nelle cose stesse. Ora, tutto questo giocare col fuoco era già chiaro anche ai suoi contemporanei, almeno a quei pochissimi pensatori, a cui Heidegger non ha avuto la tempra di appartenere, che, nell'età della "crisi" europea,  "non hanno tradito". Heidegger resta un "filosofo della crisi", espressione e protagonista di quella deriva. Certo, con Heidegger non siamo nella dimensione dell'antisemitismo "onto-storico" (Peter Trawny) o "metafisico" (Donatella Di Cesare), come questo libro ci mostra. Siamo più banalmente però nella dimensione di un antisemitismo storico e politico. Nel momento della verità, Heidegger non si trovò dalla parte giusta. E anzi asservì la sua filosofia, anzi la filosofia, alla bisogna. D'altronde, le sue scelte, in questo caso politiche e filosofiche insieme, le aveva già fatte da sempre, e sempre le avrebbe tenute ben ferme, anche nel secondo dopoguerra: avversione completa alla tecnica, allo spirito mercantile, al capitalismo, all'individualismo borghese, al "pensiero calcolante", in una parola al mondo contemporaneo. Il tutto sempre giocato, ripeto, in una tensione ambigua fra ontico e ontologico, fra una sorta di "filosofia della storia" del declino occidentale e l'iscrizione di questo declino in un orizzonte "destinale". Giusto perciò segnalare e denunziare le strumentalizzazioni mediatiche, come hanno fatto gli autori di questo libro, ma questo non deve significare affatto assolvere Heidegger.Così come ovviamente non deve significare sottovalutarlo o ritenerlo irrilevante per capire il mondo contemporaneo e la stessa evoluzione del pensiero filosofico. Anche per capire, aggiungo, la natura e limiti della sua e di ogni filosofia. In primo luogo di una filosofia che è metafisica pur pretendendo di non esserlo.