Millenovecentoventisei: è l'anno in cui si impone nell'immaginario internazionale l'icona vamp di Greta Garbo. Novant'anni fa, con quei suoi due primi film hollywoodiani, Donna fatale e La tentatrice, l'attrice svedese impone infatti d'un colpo l'immagine di una donna inedita: bellissima ma misteriosa, dominatrice e tentatrice, inevitabilmente egemone sul genere maschile. D'altronde, quello di femme fatale, dal passato torbido, destinata a catturare gli uomini e a vampirizzarli, fu il cliché che Hollywood impose a Greta sin da quei suoi primi film e che gli restò attaccato per tutta la vita, anche per la seconda lunga parte della sua vita, lontana dai set che abbandonò ancora giovane, solo 34enne, nel 1939. Ma in quel '26, anno del suo debutto e del suo stesso trionfo impetuoso nell'immaginario popolare, le pellicole del cinema muto era affollate di vampiri e di vamp, i mostri dai canini aguzzi pronti a succhiare sangue e le avvenenti ragazze che figuravano accanto a loro. Donne incantevoli ma maledette, pronte a giocarsi qualsiasi carta pur di vincere le proprie partite in amore e nella lotta dei sessi, nel nome di una bellezza che incanta e abbaglia ma accoltella e distrugge anche gli esseri mostruosi.D'altra parte, la figura del vampiro s'era imposta subito nel cinema e derivava dal protagonista del romanzo Dracula di Bram Stoker, pubblicato in Gran Bretagna nel 1897, solo due anni dopo la nascita dell'invenzione dei fratelli Lumière. Il prototipo del conte transilvano dilagò nei film e determinò imitazioni e cloni. Inevitabilmente, il cinema sentì il bisogno di equilibrare l'affermazione dei vampiri con le vamp, le fascinose e tenebrose signore irte di armi invisibili lungo il corpo, seminatrici di baci densi di veleno.Nei tre decenni intercorsi tra l'apparizione in libreria del Dracula di Stoker e l'incarnazione cinematografica che ne fece Bela Lugosi nel film di Tod Browning del 1931, il vampiro-maschio fu senz'altro surclassato dalla donna-vamp. Secondo chi studiò il fenomeno, le vamp «dovevano la loro vistosa popolarità - lo ha spiegato, ad esempio, Italo Moscati - e la loro fortuna presso il pubblico perché diventavano eroine di un curioso contrasto: esse incarnavano il nemico; erano le donne venute da un altrove, donne misteriose e minacciose in cui si poteva trasferire la paranoia dei ceti più poveri della popolazione americana». E di fatto le vamp più famose degli anni Venti erano in grandissima parte attrici straniere, spesso provenienti dalle aree più cupe e fredde dell'Europa, icone di ghiaccio incandescente, signore delle nevi e del mistero come la regina di Biancaneve. Non a caso l'immagine di Greta Garbo colpì tra le tante che comparivano nei campionari di fotografie mostrate ai produttori di Hollywood dagli agenti dell'industria cinematografica. Marcello Mastroianni che la incontrò nei primi anni Sessanta ne paragonò la visione proprio alla «bellezza un po' minacciosa della regina di Biancaneve».Lei, Greta Lovisa Gustafsson, svedese nata nel 1905, era arrivata a Hollywood dalla Germania, dove aveva lavorato dopo alcuni filmati pubblicitari e i suoi due primi film girati nella sua Svezia a diciotto anni, di cui uno La saga di Gosta Berlin sotto la guida del suo scopritore, regista e amante Mauritz Stiller, un artista un po' geniale, nato in Finlandia da una famiglia ebreo-russa che s'era imposto a Stoccolma.A creare il suo mito sarà fatale l'incontro con Mauritz Stiller, Moje come lo chiamavano gli amici e le persone a lui care, l'uomo che la modellerà in quella che è stata probabilmente la più grande stella e diva del cinema novecentesco. Nel 1923, quando la incontrò, aveva già diretto quaranta film ed era famoso come regista e innovatore della tecnica cinematografica. Era stato tra i primi a usare la camera mobile e i primi piani, come le immagini sovrapposte, aveva inventato la cosiddetta "commedia sofisticata". Ed era stato un precursore anche nel far recitare attori presi per strada, l'importante era che avessero il volto che lui immaginava, un volto che poteva raccontare una storia. Quando vede Greta ordina all'operatore di farle qualche primo piano e la accomiata. Quando la ragazza se n'è andata, Stiller confida ai suoi collaboratori: «Avete visto la sua bellezza? Quelle ciglia così lunghe? Un viso così si vede davanti a una macchina da presa soltanto ogni cento anni. Ne farò una stella conosciuta in tutto il mondo».Moje diventerà regista, maestro, amante, pigmalione e, forse, una sorta di nuovo padre, di Greta, la quale il genitore l'aveva perso subito per un incidente. E sarà Moje a inventarle il nome d'arte. Lui riteneva infatti Gustafsson un cognome troppo comune, Stoccolma ne era piena, e anche troppo lungo per una star. Stiller decide che andava mutato in qualcosa di più breve e d'impatto, facile da imparare e ricordare, da poter pronunciare in tutte le lingue. Chiede all'amico Arthur Nordèn, che è uno storico, di trovarle un nome adatto a una proiezione internazionale, che potesse travalicare la Svezia. E Nordén suggerisce il nome Gabòr, come il re d'Ungheria del diciassettesimo secolo. Stiller non è convinto e prova a evocarne delle varianti. E arriva a "Garbo", forse ispirato, come alcuni dicono, da "garbon", che nella tradizione popolare scandinava è un folletto misterioso che compare solo la notte per danzare sotto i raggi di luna.«Perché Dio», confesserà in tarda età Greta all'amico Antoni Gronowicz, «mi ha dato questo grande desiderio di recitare? Perché un Dio saggio mi ha messo nelle mani di Mauritz Stiller, che, a ben pensarci, era piuttosto uno strumento di Satana? ». Greta aveva infatti bene in mente ciò che una volta le aveva detto Moje: «Per noi il cinema è un miracolo di Satana, il più grande dei miracoli, anzi, perché cattura le emozioni e la felicità degli uomini con una fedeltà che non ha riscontro in nessun altro mezzo di comunicazione. E sono convinto che il cinema si addica più all'arte della corruzione che a quella della giustizia divina?». Dirà in tarda età, ancora Greta: «Per quanto satanico potesse essere Moje, fu proprio grazie a lui che divenni famosa. Poi, ad un certo punto, lui mi lasciò, senza trarre nessun vantaggio».Nel 1925 Stiller condurrà Greta a Hollywood e ne avvierà la costruzione del mito. In soli sedici anni, fino a quel 1941 in cui sugli schermi apparve il suo ultimo film,  Non tradirmi con me, la Garbo fu la regina del cinema tout court. E la sua icona influenza il costume e la moda non solo dallo schermo, viene imitato anche il suo modo di vestire nella vita privata: camicie e giacche maschili, cravatte, scarpe basse, pantaloni quasi sempre. Quei film restano nell'immaginario novecentesco: Mata Hari, Grand Hotel, La carne e il Diavolo, Orchidea selvaggia, Anna Karenina, Margherita Gautier, Come tu mi vuoi,  Ninotchka?Quando il suo ultimo lavoro arrivò sugli schermi scatenò un putiferio. Negli Stati Uniti la Lega nazionale del buoncostume arrivò ad accusare il film di immoralità: «Come si può mostrare un uomo sposato che tradisce la moglie con la sorella gemella? L'atteggiamento verso il matrimonio è anticristiano, il dialogo, i costumi, le situazioni sono scandalosamente allusivi?». L'arcivescovo di New York, Francis J. Spellman, tuonò dal pulpito di Saint Patrick, esortando tutti i parroci a esortare i propri fedeli a non vedere il film, «occasione di peccato». D'altronde, quando anni prima, Greta aveva protestato con i produttori che l'avevano ingabbiato nel cliché della "donna fatale" e diceva che avrebbe voluto interpretare la parte di qualche eroina positiva, come ad esempio Giovanna d'Arco, Louis B. Mayer - quello della MGM - gli aveva risposto: «Le brave ragazze non interessano il pubblico».Comunque, Greta a trentasei anni si ritira dalle scene. Trascorrerà quarantanove anni fuori dalla scena pubblica, tra New York, viaggi, amori, amicizie e, soprattutto, solitudine. La "maledizione" di essere una diva non l'abbandonerà però mai. Anzi, il suo ritiro all'apice della carriera e ancora giovane, fece aumentare la fama della "divina" e la stessa aura di mistero che l'aveva accompagnato sin dall'esordio. All'amico Gronowicz racconterà tutti i suoi amori, da Stiller al direttore d'orchestra Leopold Stokowski, dal miliardario George Schlee al guru della dietologia Gayelord Hauser, dal caro amico e famoso fotografo Cecil Beaton all'amica Mercedes de Acosta. Confessò: «Non ho mai davvero incontrato la persona giusta, che mi dicesse che cosa dovevo fare e a cui anche io potessi dire che cosa fare, in un rapporto di fiducia reciproca, di parità». Forse sta anche in questo il segreto del mistero della Garbo, quella tristezza che si intuiva al fondo del suo sguardo magnetico. «Viso di neve e di solitudine» la definì nel migliore dei modi Roland Barthes.